Insegnare tenendo a mente il cervello

Neuroscienze cognitive e pratiche educative

L’apprendimento è governato da un complesso set di variabili che coinvolgono sia la componente genetica che, soprattutto, quella ambientale.

Neuroscienze cognitive a scuola

Secondo la rivista inglese Mind, Brain and Education, il 90% degli insegnanti pensa che sapere come funziona il cervello sia importante per poter elaborare programmi educativi1. Sebbene ogni decisione scolastica non debba essere presa necessariamente consultando prima gli studi in ambito neuroscientifico, sembra chiara l’attenzione o almeno la curiosità verso i risultati della ricerca scientifica. È importante tuttavia mantenere sempre una certa cautela nell’interpretare i risultati di studi sperimentali, che per la maggior parte sono derivati da indagini di laboratorio.

Quello che funziona in laboratorio deve essere infatti validato in classe2. Esistono allora delle solide evidenze che mostrano l’applicabilità in aula dei risultati ottenuti? Per la verità, l’ambito di cui stiamo parlando è così vasto da non poter prescindere dal considerare i moltissimi fattori che influenzano l’apprendimento, primo fra tutti la soggettività di ogni individuo coinvolto: insegnanti con i loro diversi approcci, studenti e studentesse con le loro attitudini variegate. Senza contare poi i fattori culturali e sociali di cui sono impregnate le diverse realtà.

Una buona prassi potrebbe ad ogni modo contribuire ad aumentare la qualità del lavoro educativo e del processo di apprendimento. Questa consiste nel:

  • partire dalla ricerca di base e comprendere cosa accade al cervello in fase disviluppo e le relazioni esistenti con il comportamento;
  • indagare in letteratura se esistono studi su animali o esseri umani che mostrano, in condizioni controllate, il valore di certe teorie;
  • trovare se ci sono ricerche in ambito educativo condotte in un ambiente reale, quindi ad esempio in classe;
  • sperimentare personalmente nuovi percorsi, strategie, pratiche nonostante le difficoltà che il duro mestiere del docente comporta.

Esplorare alcune funzioni di base dell’apprendimento

Quando parliamo di apprendimento, siamo di fronte ad un sistema che si esplica in una serie di attività estremamente complesse e sofisticate.

Anche dal punto di vista cerebrale, è possibile apprezzarne l’artificiosità. Il processo di apprendimento infatti inizia tramite un procedimento sensoriale, con input che provengono dai cinque sensi o sono generati attraverso processi di immaginazione o ancora per un riflesso. Inizialmente processato nel talamo, l’input viene girato simultaneamente alle aree specifiche per un ulteriore processamento.

Questo significa che le informazioni visive raggiungono il lobo occipitale, quelle linguistiche il lobo temporale, quelle motorie il lobo parietale e così via. Il cervello forma così un’impressione sensoriale grezza dei dati in ingresso.

Se questi dati hanno caratteristiche identificate come spaventose o sospette, l’amigdala, la sentinella delle condizioni di incertezza, si attiva e metterà in allarme il resto del sistema, rendendolo pronto ad una risposta repentina.

Nel frattempo il lobo frontale, che mantiene i nuovi dati nel magazzino a breve termine per 5 massimo 20 secondi, nel caso in cui li ritenga pregevoli di una seconda considerazione, li trasferisce all’ippocampo che decreterà il loro livello di rilevanza.

Una volta deciso e in caso affermativo, il nuovo apprendimento sarà organizzato, indicizzato dall’ippocampo e immagazzinato nella corteccia, esattamente nel lobo che lo aveva inizialmente processato (informazioni visive nel lobo occipitale, linguistiche nel temporale, motorie nel parietale ecc.).

Mentre l’originale processamento si conduce alla velocità della luce, gli stadi successivi e l’immagazzinamento finale possono richiedere anche ore, giorni o settimane.3

All’interno del cervello, diverse condizioni mostrano che l’apprendimento ha preso piede: con la modificazione di connessioni esistenti o la riorganizzazione delle funzioni delle aree cerebrali (in caso di lesioni o di attività ripetute nel tempo, come ad esempio suonare uno strumento); con l’eliminazione di sinapsi attraverso il processo definito “potatura” e tramite l’esperienza.

Quello che non si usa è solitamente eliminato nel mondo competitivo neurale con la crescita di nuove connessioni, procedura chiamata sinaptogenesi, risultato tipico dell’apprendimento.4

Quali sono gli ingredienti necessari per l’apprendimento?

Provando a riflettere sulla domanda “quali sono gli ingredienti necessari per l’apprendimento?” si potrebbe ipotizzare una risposta utilizzando come riferimento i classici accorgimenti che ogni studente e studentessa dovrebbero seguire: prestare attenzione, prendere appunti, fare i compiti per casa. Queste considerazioni sono sicuramente valide. Tuttavia oggi, come sappiamo, l’apprendimento è in realtà governato da un più complesso set di variabili, che coinvolgono sia la componente genetica che, soprattutto, ambientale. Sono allora molti i fattori che influenzano l’apprendimento: di natura esterna, come il rapporto con i pari, la temperatura della stanza, lo spazio fisico, la relazione con il docente, e di natura interna, dovuti al modo in cui il cervello matura e si costruisce nel tempo, frutto di traiettorie uniche di sviluppo. Alcuni di questi fattori possono essere lo stato emotivo e la motivazione, il coinvolgimento in termini di attenzione selettiva, la ripetizione e l’aggiornamento delle informazioni, la quantità di input da trasmettere, la coerenza tra modelli proposti e conoscenze precedenti, il timing inteso come alternanza tra pause e momenti di concentrazione, la correzione degli errori con la presenza dei feedback a supporto del processo di comprensione. Nelle righe che seguono parleremo di alcuni di questi elementi.

Lo stato emotivo

Tutte le evidenze, sia teoriche sia empiriche, sostengono il ruolo delle emozioni nell’influenzare il comportamento degli individui in ambito scolastico, e sottolineano il compito delle emozioni nel creare specifiche condizioni corporee e mentali, che vanno dal condizionare il battito cardiaco, la postura, i processi attentivi e mnemonici, la motivazione, fino alla cascata di neurotrasmettitori5 che dal cervello raggiunge il resto del corpo. Cosa allora è importante sapere, come educatori, sullo stato emotivo di alunni e alunne? Alcuni concetti dovrebbero essere sempre tenuti a mente.

Le emozioni sono diffuse. Ogni momento è stato-dipendente, quindi caratterizzato sempre da uno specifico stato emotivo. Questo significa che anche un ragazzo apparentemente apatico, in quel momento sta sperimentando uno stato emotivo, di cui magari non è consapevole. Le emozioni sono connesse al comportamento. Questo significa che se uno studente non è in uno stato emotivo appropriato per mettere in atto il comportamento che ci si aspetta in quel momento da lui, probabilmente quel comportamento non ci sarà finché non ci sarà un cambio di stato.

Le emozioni non sono ciò che siamo. Sono infatti qualcosa di cui facciamo esperienza e anche se un particolare stato, come per esempio l’essere malinconici o irrequieti, si presenta spesso come tratto caratteristico di un individuo, l’errore da evitare consiste nell’etichettare quel soggetto proprio a seconda del suo stato. Seguendo questo discorso, non ci sono studenti demotivati o arrabbiati, ma studenti che stanno vivendo uno stato di demotivazione o di rabbia.

Le emozioni sono transitorie. Nei bambini e negli adolescenti forse questo concetto è più evidente, vista la tempesta emotiva che attraversa queste fasi dello sviluppo. Proprio per questo motivo è importante riuscire ad aiutarli fornendo loro strumenti che consenta-no di gestire il flusso delle emozioni che caratterizza le loro azioni.

Gli stati emotivi stabili sono un problema. Sperimentare uno stato emotivo per lungo tempo rischia di automatizzare certe elaborazioni comportamentali e psicologiche, a volte disfunzionali, perché riconosciute dal nostro sistema come familiari e confortevoli.6

Il coinvolgimento ossia l’attenzione selettiva

Il coinvolgimento in termini di attenzione impiegata per svolgere un determinato compito, non è un requisito che interviene in tutti i tipi di apprendimento. Molto di quello che sappiamo, probabilmente più del 90%, è il risultato di acquisizioni inconsce. Tuttavia, per le attività che vengono condotte a scuola, il coinvolgimento in termini di capacità attentive che vengono cosciente-mente spese da parte dello studente, rappresenta un elemento importante. Richiedere attenzione sostenuta allo studente necessita tuttavia di uno sforzo a volte snervante e improduttivo. Perché? Le nostre richieste devono competere con stimoli che sono addirittura biologicamente rilevanti, come stringere rapporti sociali ed evitare quindi l’esclusione, spegnere la fame e la sete, combattere il sonno, il caldo o il freddo. Inoltre, il cervello impiega costantemente molte energie per evitare il pericolo di incorrere in situazioni dannose per sé egli altri, momenti imbarazzanti o occasioni che generano possibili fallimenti. Ancora, le ricerche ci dicono che attività come attenzione, memorizzazione, apprendimento, richiedono alti livelli di glucosio, che precipita in maniera repentina anche sulla base del compito in cui siamo impegnati. Il risultato sarà allora uno studente presto stanco, disattento e apatico.

In generale poi, la mancanza di zuccheri rende il soggetto meno capace di controllare volontariamente il comportamento e di inibire l’aggressività. Ecco quindi che l’espressione “prestare attenzione”, in inglese “pay attention”, risulta appropriata, perché il cervello in effetti “presta” le sue energie, “paga” la perdita delle sue preziose risorse. Si tratta infatti di orientare, ingaggiare e mantenere attivi i network neurali appropriati. Al tempo stesso, come abbiamo visto, il cervello deve escludere e sopprimere l’interferenza di distrattori esterni e interni. Mantenere l’attenzione richiede quindi uno stato interno altamente disciplinato e un adeguato bilanciamento chimico.7

La complessità del sistema attentivo genera anche una serie di limiti. È ragionevole pensare che un adolescente, ma in generale ogni individuo, presti attenzione quando una serie di condizioni sono almeno parzialmente soddisfatte:

  • Ritenere ricco di significato il tempo de-dicato all’apprendimento. Questa è la condizione in cui il soggetto entra nel cosiddetto “stato di flusso”, dove l’attività che sta compiendo è talmente coinvolgente da far perdere la nozione del tempo.8 Questa è ovviamente una situazione difficile da ottenere a scuola, ma forse non impossibile.
  • Riuscire ad ascoltare bene l’insegnante, senza l’interferenza di altri rumori o problemi di illuminazione, temperatura e seduta non ergonomica.
  • Avere alle spalle sufficienti ore di sonno ea ver soddisfatto tutti i bisogni primari. Gli adolescenti sono cronicamente deprivati di sonno, colpa dei bassi livelli di melatonina che spostano il ciclo sonno-veglia più avanti nel tempo.
  • Avere abitudini alimentari corrette; quelle scorrette portano a saltare la colazione e a bere poco durante le ore scolastiche.9

La correzione degli errori e l’uso dei feedback

L’apprendimento per prove ed errori è un procedimento che trova un sen-so dal punto di vista della funzionalità cerebrale. Il cervello infatti raramente indovina la strada giusta al primo tentativo e inoltre, fare errori è la chiave ottimale per lo sviluppo di competenze. Ma perché il cervello non ci permette di fare bene le cose al primo colpo? I network neurali, nello sperimentare le diverse opzioni disponibili, diventano più efficienti e abili nell’eliminazione di soluzioni che non funzionano.

In questo contesto, un altro elemento importante è rappresentato dall’apprendimento guidato da feedback, che genera connessioni ancora più accurate e complesse. Spesso il feedback o il de-briefing fanno la differenza in situazioni in cui si tende a non imparare dai propri errori. Infatti, senza una spiegazione chiara della causa dell’errore, non si creano modelli mentali adeguati e l’apprendimento tende e rimanere non efficace. Combinando queste due situazioni, apprendimento per prove ed errori e guidato da feedback ad opera del docente stesso, la probabilità di accrescere negli studenti e studentesse capacità critiche oltre che conoscenze, che permettano di valutare, riflettere e cambiare il comportamento o il modello mentale che si sono formati, potrebbe aumentare.

L’apprendimento per prove ed errori implica anche l’implementazione di una modalità di insegnamento che consenta allo studente di partecipare in maniera attiva. La pratica educativa classica ha condizionato ad adottare modalità passive di partecipazione in aula. Per questo motivo, spesso si incontrano resistenze da parte degli alunni nei confronti di richieste di un loro intervento. Una lezione si può facilmente rendere attiva se include, per esempio, modalità domanda-risposta, discussioni, giochi, problem-solving, dibattiti e attività pratiche. Questi strumenti presentano immediati vantaggi per il docente, per esempio nell’opportunità di intercettare rapidamente quale studente conosce l’argomento, lo padroneggia e quale no, e inoltre, rende l’apprendimento più divertente e aiuta la classe a far passare il tempo più velocemente. Sul versante biologico, l’apprendimento attivo presenta ulteriori vantaggi: dal momento che coinvolge maggiormente i sensi e le aree motorie, mette in moto un maggior numero di risorse neurali. Questo si traduce in un incremento dell’attenzione, della concentrazione e delle abilità di ragionamento; inoltre, diversi studi dimostrano come venga richiamato meglio alla memoria ciò che è stato fatto attivamente piuttosto che passivamente; infine, si ottiene una maggiore attivazione delle strutture emotive del cervello, con ovvi effetti positivi.10

Applicare quello che sappiamo

Ora, cosa dovremmo fare noi insegnanti sapendo questi fatti intorno al cervello e al suo funzionamento? Che utilità possono avere le informazioni sul cervello giovane che apprende? Molti studi mostrano gli effetti positivi nella trasformazione in pratica di queste ricerche. Eppure sono ancora molti gli aspetti educativi che sfuggono alle neuroscienze cognitive. Come pure la presenza di sovra interpretazioni e fraintendimenti della letteratura neuroscientifica a disposizione.11 Il dialogo tra i due interlocutori potrebbe prevedere uno scambio proficuo in cui da una parte le neuroscienze cognitive offrirebbero un contributo conoscitivo alla didattica e all’educazione, dall’altra parte la scuola potrebbe indirizzare la ricerca scientifica alla risoluzione di dilemmi educativi utili alla professione del docente.

Costruire nuovi concetti e avanzare nuove ipotesi

Se la missione per la scuola è quella di rispondere in modo ottimale ai bisogni di apprendimento degli allievi, diventa determinante il riconoscimento implicito del fatto che ogni studente e ogni studentessa hanno un cervello unico.

Ognuno di loro è particolare nei suoi punti di forza e di debolezza in relazione all’apprendimento di informazioni di un determinato tipo.12 Il cambiamento in questa direzione potrebbe giungere innanzitutto dal ruolo del docente.

Ogni docente nella sua carriera lavorativa si trova a sperimentare l’incertezza, entrando in un’aula. Ogni studente e studentessa costringe infatti a mettersi in discussione, a rivedere i punti fermi del proprio stile di educatore. Ci si può allora rendere presto conto che la metodologia e la teoria portata in aula sono solo uno dei percorsi possibili per attivare il processo di apprendimento, non l’unico e neppure il definitivo, ma che esistono, invece, modi alternativi e imprevisti di imparare. Proprio come esistono cervelli unici.

Persino l’etimologia di due termini importanti in campo educativo incrocia ciò che dicono le neuroscienze cognitive sul modo in cui il cervello viene facilitato o meno nel processo di apprendimento. Imparare versus Insegnare. Imparare deriva dal latino imparare, formato da in e parare e significa procurare, nel senso di procacciarsi una nozione. Presuppone quindi un atteggiamento attivo e partecipe. Insegnare proviene invece dal latino insignare, formato da in e signare, quindi segnare, imprimere, fissare, da signum, marchio, sigillo. Rimanda quindi al ruolo passivo di chi viene “segnato”. Insegnare porta con sé, come sappiamo, l’idea di una pura trasmissione di contenuti concettuali. Imparare invece non significa assorbire passivamente. È un movimento attivo che porta con sé anche la valorizzazione e il riconosci-mento di chi impara. È una tensione tra due soggetti, entrambi esperti, che entrano in relazione. Ogni elemento aggiunge parti al rapporto educativo, e la conoscenza che cresce è aperta, non segue un percorso lineare.13

Imparare si arricchisce allora di sinonimi come scambio, proposta, interazione, confronto, sperimentazione, conquista. Soprattutto, diventa un compito reciproco, condiviso e distribuito. Nel momento in cui si entra in classe, come docenti, si impara qualcosa di nuovo per sé, in un percorso verso la conoscenza che porta a crescere, a modificarsi. Solo così si riesce a incuriosire, a coinvolgere e trascinare. Solo così si realizza quello che per James Zull è l’essenza dell’in-segnamento, ossia “l’arte di cambiare i cervelli”.14

Modificare gli spazi e le relazioni: la classe-laboratorio, lo studente-sperimentatore, il docente-scienziato

La classe e il gruppo di studenti, insieme all’educatore, diventano un laboratorio, uno spazio in cui negoziare e co-costruire significati con lo scopo di raggiungere l’efficacia nella relazione scolastica e di apprendimento. L’insegnante è attivamente impegnato a interpretare se stesso, il mondo, le relazioni e gli altri formulando teorie e ipotesi e verificandole attraverso l’esperienza, come fosse uno scienziato. L’insegnante, l’educatore, l’adulto, non fornisce le risposte, ma stimola delle domande, sempre migliori via via che si considerano soluzioni alternative.

Lo studente-sperimentatore si incuriosisce, risolve problemi e genera le risposte più appropriate, che poi verranno sottoposte a verifica fino alla soluzione migliore da condividere con il gruppo. Una dinamica educativa così composta tiene per esempio conto delle condizioni che sono “neurologicamente confortevoli”,15 facilitando in questo modo il processo di apprendi-mento ed esplicitando una verità forse troppo a lungo trascurata, che il “discente impara quello che vuole imparare”.16

Pamela Filiberto
Ricercatrice nel campo delle Scienze psicologiche e sociali
SISSA
Trieste

 

 L’articolo è stato pubblicato nella rivista Quaderno di orientamento – numero 50 – primo semestre 2017.

Tutti i numeri della rivista sono consultabili al seguente link

 

BIBLIOGRAFIA

  • Csikszentmihalyi M., Finding flow in everyday life, Mastermind Series, NY, 1997.
  • Della Sala S., Anderson M., (a cura di), Le neuroscienze a scuola. Il buono, il brutto, il cattivo, Giunti Scuola, Milano, 2016.
  • Filiberto P., Quaderni di Orientamento, Regione FVG, II semestre, N. 49, dicembre 2016.
  • Geake J. G., Il cervello a scuola. Neuroscienze e educazione tra verità e falsi miti, Erickson, 2016.
  • Jensen E., Teaching with the brain in mind, ASCD, 2005.
  • Mitra S., TED Talk presented at TED2013 (Technology, Entertainment, Design 2013), Long Beach, CA, February.
  • Pickering S.J., Howard-Jones P., Educators’ Views on the Role of Neuroscience in Education: Findings From a Study of UK and International Perspectives, Volume 1, Issue 3, Pages 109–113, September 2007.
  • Rossi-Doria M., Tabarelli S., (a cura di), Reti contro la dispersione scolastica. I cantieri del possibile, Erickson, 2016.
  • Zull J., The art of changing the brain, Stylus Publishing, Virginia, 2002.

 NOTE

  1. Pickering S.J., Howard-Jones P., Educators’ Views on the Role of Neuroscience in Education: Findings From a Study of UK and International Perspectives, Volume 1, Issue 3, Pages 109–113, September 2007.
  2. Della Sala S., Anderson M., (a cura di), Le neuroscienze a scuola. Il buono, il brutto, il cattivo, Giunti Scuola, Milano, 2016
  3. Jensen E., Teaching with the brain in mind, ASCD, 2005.
  4. Ibidem.
  5. I neurotrasmettitori sono sostanze chimiche, di struttura piuttosto semplice (acetilcolina, noradrenalina, dopamina), che trasmettono informazioni nervose da una cellula a un’altra del sistema nervoso, ossia da un neurone all’altro. Fonte: Treccani.it.
  6. Ibidem.
  7. Ibidem.
  8. Csikszentmihalyi M., Finding flow in everyday life, Mastermind Series, NY, 1997.
  9. Jensen E., Teaching with the brain in mind, ASCD, 2005.
  10. Ibidem.
  11. Filiberto P., Quaderni di Orientamento, Regione FVG, II semestre, N. 49, dicembre 2016.
  12. Geake J.G., Il cervello a scuola. Neuroscienze e educazione tra verità e falsi miti, Erickson, 2016.
  13. Rossi-Doria M., Tabarelli S., (a cura di), Reti contro la dispersione scolastica. I cantieri del possibile, Erickson, 2016.
  14. Zull J., The art of changing the brain, Stylus Publishing, Virginia, 2002.
  15. Jensen E., Teaching with the brain in mind, ASCD, 2005.
  16. MitraS.,TEDTalkpresentedatTED2013 (Technology, Entertainment, Design2013), Long Beach, CA, February.

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