FABschool: hackerare la didattica da dentro

Come prepararsi a una rivoluzione già in atto?

Il contesto sociale, politico ed economico globale in cui siamo immersi ci chiede ormai da tempo di prepararci a una rivoluzione del mondo del lavoro che è già in atto.
Lo sviluppo tecnologico e digitale sta attualmente comportando l’automazione di milioni di posti di lavoro; il McKinsey Global Institute ancora nel 2017 stimava che, nelle nazioni “Big 5” europee di cui anche l’Italia fa parte, il 46% dei lavori oggi svolti da persone possono già essere automatizzati adottando tecnologie attualmente disponibili.
Lo stesso studio sottolinea come l’automazione non distrugga, ma possa trasformare lavori già esistenti e come apra la strada a nuove professioni puramente “umane” necessariamente complementari alle mansioni automatizzate.

In linea con questo pensiero il World Economic Forum sostiene che, dei bambini iscritti alle scuole primarie dal 2019 in avanti, il 65% sarà impiegato in lavori che attualmente non esistono. Così, nel nostro ruolo di educatori, siamo tenuti ad accompagnare le nuove generazioni verso un mondo del lavoro in cui ricopriranno ruoli e mansioni che oggi ancora non sappiamo immaginare. Come affrontare una tale sfida?

Sempre il World Economic Forum identifica un nuovo set di competenze necessarie ai professionisti del futuro (e del presente!) per poter agire sul proprio progetto di vita in questo contesto in rapido cambiamento.
Sono chiamate “le competenze del 21esimo secolo” (21st Century Skills) e sono suddivise in 3 macro-categorie (World Economic Forum, New Vision for Education, 2015):

  • Livelli di alfabetizzazione (foundational literacies): sono le conoscenze di base fondamentali a ognuno per potersi muovere nel tessuto contemporaneo. Importante sottolineare come il WEF elenchi tra queste conoscenze letteralmente vitali anche l’alfabetizzazione su temi finanziari e sull’ICT (information and communication technology).
  • Competenze (competencies): sono intese come gli strumenti sempre più necessari in futuro ad affrontare sfide complesse e veicolare nella pratica le proprie conoscenze tecniche. Il WEF individua 4 competenze chiave: il problem solving, la creatività, la collaborazione e la comunicazione.
  • Elementi caratteriali (character qualities): tra le attitudini che il WEF considera strategiche per potersi muovere in un ambiente sempre più complesso e multifattoriale sono elencate la curiosità, lo spirito di iniziativa, la consapevolezza sociale e l’adattabilità.

Gli ingredienti base per i lavori del futuro, dunque, combinano dimensioni cognitive particolarmente funzionali a sapersi muovere in contesti di complessità e rapidissimo cambiamento (es. il problem solving e la creatività) a dimensioni che l’automazione non saprà mai sostituire, come la curiosità, l’adattabilità e la socialità.
Alla base sta un livello di alfabetizzazione tecnologica a dir poco fondamentale, che dobbiamo però imparare a interpretare secondo la giusta prospettiva. Gli strumenti tecnologici e digitali non sono il fine ultimo, ma si configurano come strumenti funzionali, supporti che ci permettano (tanto quanto una penna, un foglio o uno scalpello) di creare qualcosa di nuovo, offrire soluzioni alle sfide che affrontiamo, dare voce a una nostra idea. Dobbiamo, insomma, abituarci a vedere la tecnologia e il digitale come strumenti che potenziano l’umano.

Nella ricerca di un modello educativo che combini l’orientamento tecnologico alle caratteristiche più “umane” in assoluto (come curiosità, condivisione e sperimentazione) ci imbattiamo nella storia dei FabLab, che hanno molto da raccontarci.
Quello dei FabLab è un modello che nasce negli Stati Uniti all’interno del MIT e sbarca in Italia nel 2011. Nel 2021 al mondo ne sono stati aperti più di 2000 e in Italia se ne contano 177 (Dati di https://www.fablabs.io/)

I Fablab sono luoghi aperti alla comunità, vere e proprie botteghe di artigianato digitale. Sono spazi che ospitano macchine digitali (stampanti 3D, macchine per il taglio laser, etc.): al loro interno, piccole comunità di artigiani digitali sono a disposizione per chiunque abbia un’idea e voglia provare a prototiparla, a fronte di un costo associativo o, molto spesso, di una forma di “baratto” basato sulle competenze.

Negli anni i FabLab si sono sempre più configurati come poli dove chiunque può trovare non solo strumentazioni, ma anche (e soprattutto) una comunità di appassionati dalle competenze eterogenee alla ricerca di nuovi team di lavoro e di nuove idee da sviluppare insieme.

Il progetto “Maker@Scuola: nuove tecnologie per la didattica” di Indire esplora proprio come la filosofia dei makers (termine inglese che indica gli artigiani digitali) a contatto con il contesto didattico possa dare vita a un modello di apprendimento che da una parte favorisce lo sviluppo di competenze scientifiche, logico- matematiche e linguistiche, dall’altro potenzia quegli aspetti collaborativi, creativi e di sperimentazione che, come abbiamo visto, risultano vitali nel contesto lavorativo del futuro.
Ma quali sono i pilastri di questo modo di pensare? Indire li individua nelle seguenti parole chiave:

  • Tinkering: il termine descrive un processo ciclico di ideazione, realizzazione pratica e miglioramento continuo della propria idea. Tradurre un pensiero in una forma concreta e prototipale che diventi oggetto di valutazione e perfezionamento è un percorso che introduce l’errore come fattore costruttivo di miglioramento.
  • Sharing: la parola significa “condividere”. Il pensiero dei maker prevede il confronto e il lavoro di gruppo come elementi essenziali per generare innovazione e idee vincenti; dal punto di vista educativo, la condivisione stimola le competenze relazionali e comunicative.
  • Hacking: è un termine che siamo abituati a rivestire di connotazioni negative (pensiamo agli hackers come criminali digitali nell’atto di rubare informazioni), mentre il verbo descrive l’approccio curioso di chi scompone un oggetto o un meccanismo per studiarne il funzionamento e riprodurlo.

Un modello nelle scuole: il progetto Fabschool

Fabschool è un progetto di sistema avviato nel 2020 in 6 poli tra Veneto, Lombardia e Marche. Il capofila Fondazione Edulife insieme a una rete di partner territoriali (tra cui diversi Fablab) ha contribuito all’apertura di sei spazi fisici all’interno di istituti scolastici attraverso cui diffondere proprio la filosofia maker tra studenti e insegnanti.
Gli spazi si conformano come vere e proprie “botteghe” fornite di stampanti 3D, attrezzi da falegname, sensori, microcontrollori, macchine per il taglio laser e molto altro; al loro interno, con l’affiancamento di facilitatori digitali in formazione costante, chiunque può accrescere le proprie competenze digitali in una dinamica laboratoriale profondamente collaborativa, basata principalmente sul peer to peer learning.

I Fabschool quindi sono spazi ibridi fatti per l’apprendimento non formale: combinano lo sviluppo di competenze digitali a quelle competenze trasversali fondamentali per il contesto in trasformazione che sopra abbiamo trattato. La forte caratterizzazione laboratoriale vuole generare un contesto in cui gli studenti possano mettere in pratica, sporcandosi le mani, le conoscenze apprese.

Fabschool si rivolge con particolare attenzione agli insegnanti e agli educatori. Si propone di aiutarli non tanto a formarsi sull’uso di uno strumento digitale, ma piuttosto lavora perchè arrivino ad appropriarsi di questi spazi tecnologici per diventare veri e propri “facilitatori” tra loro e con i ragazzi, per superare le dinamiche di didattica frontale e adottare il tanto necessario approccio per competenze.

Ad oggi Fabschool annovera:

  • 2 poli a Verona (il primo presso l’ IISS Copernico Pasoli, il secondo presso il learning acceletator 311 Verona);
  • 1 polo a Mantova (presso il Liceo Artistico Giulio ROmano)
  • 1 polo a Schio (VI) (presso il collettivo Faber Box, spazio condiviso da diversi istituti superiori del COmune);
  • 1 polo a Belluno (presso l’IC di Sedico Sospirolo)
  • 1 polo ad Ancona (presso l’IIS Volterra Elia).

In ognuno dei poli le attività sono innumerevoli: percorsi laboratoriali che coinvolgono gli insegnanti, hackathon e project work rivolti agli studenti con il coinvolgimento di aziende esterne, camp estivi dedicati alla programmazione e alla robotica, laboratori di tecnologia con un focus speciale nei confronti dell’orientamento post- scolastico e così via.

Nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, invece, è stato avviato il progetto LEF – Lean Experience Factory, il quale offre agli studenti percorsi di orientamento per integrare l’apprendimento di competenze sia tecniche sia trasversali, per conoscere il contesto produttivo, internazionale e locale e per aiutarli a orientarsi tra le scelte di studio e lavoro future.
Il LEF è un centro di formazione esperienziale ed è l’azienda digitale modello più estesa e integrata al mondo focalizzata sul recupero di efficienza nei processi manifatturieri, amministrativi e logistici.
La formazione esperienziale prevede un apprendimento basato sulla sperimentazione di situazioni reali e di esercizi pratici in cui i partecipanti hanno l’occasione di “imparare facendo”.
I principali obiettivi di questo progetto sono:

  • Sperimentare la costruzione di un contesto capacitante attraverso la collaborazione di una rete istituzionale e l’utilizzo della struttura e del know-how messi a disposizione dal LEF;
  • Promuovere negli studenti della regione la conoscenza di questo contesto produttivo altamente digitalizzato del territorio, al fine di aumentare il tasso di scelte scolastiche e professionali in ambito tecnico e scientifico.

Verso le Learning Cities

Il concetto di formazione continua, il fondamento dell’esperienza di apprendimento nella collaboratività e l’attenzione agli obiettivi di sviluppo sostenibile 2030 sono dimensioni che il modello Fabschool mutua dalle Learning Cities coltivate e promosse dall’UNESCO.

Il concetto di Learning City si potrebbe tradurre come “città in apprendimento”. Nasce dalla profonda convinzione che l’apprendimento sia una condizione sostanziale e comune a tutta l’umanità, nonché l’unica strada per un’evoluzione sostenibile e globale. L’apprendimento costante è la chiave che permette di adattarsi, ridefinire norme, trovare risposte a sfide complesse in un contesto di cambiamento globale sempre più veloce come quello che caratterizza la nostra contemporaneità.
Nel 2015 l’UNESCO ha creato una rete che oggi conta 229 città in tutto il mondo, denominata “Global network of learning cities”. Dal 2020, in Friuli Venezia Giulia Trieste è Learning City insieme ad altre città italiane quali Torino, Fermo, Palermo e Lucca.

Grazie alle politiche regionali attente ai temi del Life Long Learning e ai piani di Programmazione strategica in materia di formazione e orientamento permanente (2021 – 2027), la città di Trieste sta sperimentando progettualità per avviare il modello di learning city sul territorio regionale.
Le città che fanno parte del “Global network of learning cities” assumono l’impegno politico di promuovere e facilitare l’apprendimento continuo (nelle scuole, nei posti di lavoro, tra comunità e generazioni) e la valorizzazione delle nuove tecnologie come strumento per favorirne la qualità e l’efficacia.

Le città stesse della rete dialogano in una dinamica di confronto e crescita reciproca per condividere buone pratiche e individuare insieme le risposte alle grandi sfide globali che la popolazione si trova ad affrontare. Dal Meeting tenutosi nell’ottobre 2021 in Repubblica di Corea è nata la “Yeonsu Declaration for Learning Cities – Building healthy and resilient cities through lifelong learning“.
Utopia?

Se da una parte sono i governi nazionali ad assumersi la responsabilità strategica della costruzione di società in apprendimento, il coinvolgimento deve trovare terreno fertile a livello locale. “Una società in apprendimento dev’essere costruita provincia per provincia, città per città, comunità per comunità”.

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