L’insegnamento del ben essere a scuola
Così come la musica e la creatività anche lo star bene non si estrae dalle teste dei bambini e degli adolescenti, ma si insegna all’interno del processo educativo.
Ai pomodori piace Mozart
Partirò con una sorta di ingenuità utilizzando una locuzione di J. Rawls, forse il più illustre filosofo del diritto del Novecento. Per definire il concetto di giustizia ipotizza la presenza di esseri umani privi di cultura, conoscenze, ideologie, convinzioni, certezze, ricchezze materiali, con una salute non cagionevole, insomma degli uomini pari, uguali agli altri e appiattiti da una caratteristica: sono ricoperti e protetti dal velo dell’ignoranza. E dice: a questo punto vediamo come nascono le idee naturali umane, semplici, basilari, di giustizia. Ecco io mi difendo qui con quel velo perché dirò cose che non hanno a che fare con la mia competenza musicale (scarsa) o con la cultura musicale in generale. Sono nella posizione di chi cerca di capire cosa accade in quello strano mondo dei suoni standone fuori. La prima cosa che mi viene in mente è la lettura di un simpaticissimo libretto di B. Vessicchio, intitolato, “Ai pomodori piace Mozart”, dove Vessicchio crede o sembra credere al fatto che l’effetto che la musica produce avvenga in modo meccanico/biologico sui viventi, perfino sui viventi vegetali, come i pomodori. Ecco, restando intatta la mia simpatia per Vessicchio vorrei inizialmente confutare dal basso dei miei saperi quella tesi, e poi procedere da quella confutazione.
Il fatto è che gli esseri umani, nel momento in cui hanno concepito, non so quante decine di migliaia di anni fa, qualcosa che noi oggi chiamiamo simbolo, quando indicando qualcosa hanno smesso di guardare la mano e hanno girato la testa nella direzione indicata, in quel momento hanno sentito scattare qualcosa. Qui “momento” è utilizzato in modo ovviamente metaforico, probabilmente sarà stato un batter di ciglia lungo qualche migliaio di anni. So che nei cani, animali fra i più intelligenti la cosa non avviene. So che nei primati evoluti è già presente una forma elementare di menzogna1.
Quando scatta l’umanità, l’evoluzione darwiniana si interrompe, cambia di colpo le proprie regole e diventa evoluzione culturale, con tempi diversi, con risultati diversi, con logiche e regole diverse. In questo nuovo stato l’uomo, utilizzando il simbolo e il linguaggio, rivede il mondo costruendone un altro, non più con i sensi affilati e addestrati nell’evoluzione, ma con le costruzioni di significato e senso che la nuova cultura consente.
Un altro mondo, carico di sacralità, con le sue nuove certezze, dove si inventa la menzogna evoluta, insomma la “cultura”, termine largo, direbbe il filosofo, perché capace di accogliere molto.
Ora il mondo culturale ha ovviamente un rapporto col mondo reale, ma è un rapporto mediato profondamente dai significati che la natura assume. Noi dobbiamo nutrirci, come fanno le scimmie e gli altri animali, ma il nostro mangiare è ritualizzato, viviamo il sesso non obbedendo a un impulso puramente biologico e “bestiale” (sì, d’accordo, non tutti).
Ecco, la musica è un prodotto di questo mondo culturale. È un prodotto che va letto e va visto come fatto che ha bisogno di un contesto culturale, non solamente naturale. Non siamo davanti a vibrazioni e basta. Non esiste una musica delle sfere celesti, a meno che l’uomo non l’abbia immaginata. Pensiamo all’aspetto storico della questione. La storia come crocianamente si sa è scritta dal presente. Tucidide inizia la sua storia dicendo: prima di noi Greci non è accaduto nulla di interessante, quindi cominciamo da qui. Un modo sofisticato e nuovo per celebrare le origini, così poi farà anche Roma. La storia fa ciò che le occorre, ma non ricostruisce una parte fondamentale del passato, quella parte che non ha più nulla a che fare col presente. Ebbene, pensavo recentemente al canto gregoriano e a un ragazzo che si ritrovava a scuola sempre solo e alla mamma che se ne lamentava con me:
“Mio figlio è sempre solo in classe, durante l’intervallo tutti escono nei corridoi e lui resta, l’unico, nell’aula. Non ha amici, io ci soffro, mi intristisce pensarlo così solo.
“Ma signora” dico “non ha nessun interesse in comune con gli altri?”
“Sì, gli piace la musica!”
“E allora signora, i ragazzi vanno matti per la musica, possibile che non faccia amicizie?”
“Ma vede, dottore, mio figlio, dodici anni, va matto solo per la musica sacra medievale”.
E allora ho pensato a quel ragazzo che probabilmente credeva di ascoltare il vero canto gregoriano, ma che non poteva neanche lontanamente “sentire” e provare ciò che sentivano i monaci, i cantori nel coro ligneo in fondo alle absidi delle chiese antiche. Quel canto non era destinato a un pubblico, era stato composto e veniva cantato per abbellire il testo sacro, così come i libri sacri erano abbelliti con le miniature.
Noi non possiamo sentire ciò che sentivano cantando quei cantori, quei religiosi, quei frati. Così come oggi possiamo ammirare, frantumatori di unità semantiche, una antica miniatura senza minimamente pensare al testo che essa abbelliva. Noi sentiamo altre cose. Quel ragazzo non lo sapeva, ma stava ascoltando altro, un canto gregoriano con l’incancellabile aura un po’ commerciale del nostro presente.
Le competenze musicali dei legionari romani
La storia ci insegna che anche il concetto di musica può essere vissuto, pensato, in modo diversi. Mi imbatto in Vitruvio, nel suo Res Aedificatoria, il grande libro che dal Rinascimento in poi ispira (o respinge) tutti i grandi architetti, che l’anno copiato, criticato, modificato, come il Palladio.
Bene, apro il mio Vitruvio e mi imbatto in una strana lettura che vi riassumo:
Il legionario romano deve avere una preparazione musicale.
Oh, caspita. Sussulto. Io mi ero messo in testa, leggendo tante cose sull’antica Roma che il legionario fosse una figura brutale, senza grilli per la testa, senza fantasie speculative, capace solo di combattere con coraggio e ferrea disciplina, una macchina per uccidere insomma.
E qui mi si dice che deve avere competenze musicali! Ma che bella cosa! Che apertura mentale questi Romani, che formazione completa, oggi diremmo, a 360 gradi!
Poi vado avanti a leggere.
E leggo che, come tutti sapete, i Romani costruivano formidabili macchine da guerra: catapulte, baliste, scorpioni, eccetera.
E le baliste erano tese (dato che non c’era il caucciù) torcendo con forza delle strisce di pelle o tendini animali.
Dopodiché, caricata la macchina, quando le trecce ritorte a forza venivano liberate di colpo si scaricavano dando slancio alla leva che scagliava il proietto.
Ebbene, generalmente i cordoni di pelle che venivano ritorti erano due, a sinistra e a destra, e occorreva che fossero ritorti allo stesso modo, altrimenti il proietto avrebbe subito una spinta asimmetrica e la traiettoria sarebbe stata deviata.
E come si può sapere se i due cordoni sono tesi allo stesso modo? Li si pizzica e si sente che suono fanno. E si regola il tiro facendo in modo che i suoni siano uguali. Non solo; il lanciatore esperto sa che torsione deve dare a seconda della distanza alla quale colpire; così, conoscendo bene la musica delle corde, può anche calcolare con grande esattezza direzione e gittata.
Ecco la competenza musicale dei legionari romani.
Un utilizzo del termine “musica” completamente diverso.
Abbiamo poi una musica legata ai concetti identitari. Il nostro mondo degli ultimi decenni è un mondo nel quale i nostri figli hanno smesso di nascere col destino già assegnato, come accadeva nel secolo scorso nell’Italia contadina e preindustriale: nasco da braccianti e morirò bracciante.
Questa certezza termina con la nostra, ancorché tardiva, rivoluzione industriale. Ciò significa che oggi il figlio di operai può diventare anche ingegnere (diciamo che può avvenire con difficoltà minori che in passato), ma soprattutto ciò significa che il destino non è assegnato in modo fermo e immutabile con la nascita.
Oggi il mio destino me lo devo costruire, e costruirlo significa mettere a punto la propria identità, con la quale non si nasce.
E come faccio? I modi sono tanti, ma ce n’è uno che non manca mai. Aspiro alla normalità, aspiro a essere come gli altri e per sentirmi normale faccio le cose che tutti fanno: se i miei coetanei impazziscono per questa musica, impazzirò anch’io per essa. Con dei processi non consapevoli ma efficaci.
Ma ci può essere una “droga” musicale. La musica può avere un ritmo che stordisce come una droga, è vero, ma la musica che faceva esaltare gli indiani o le tribù amazzoniche o i nostri tarantolati studiati da De Martino, non è, non costruisce lo stesso effetto ottenuto dalla musica delle discoteche.
Lo sballo è cosa diversa. Laggiù c’è un evento mistico, qui si va semplicemente fuori di testa.
Sono cose diverse e la diversità non è contenuta nel ritmo della musica, ma ce la mettiamo noi, con la nostra cultura, siamo noi che interpretiamo, leggiamo, sentiamo diversamente la musica.
Abbiamo influenze narrativistiche che ci fanno cambiare il modo col quale l’ascoltiamo. Due piccoli episodi per rendere l’idea. Un mio ricordo.
Sono studente liceale e al liceo ci fanno sentire una bella musica, poi la interrompono e ci informano: “Quella che state sentendo è la “Musica sull’acqua” di Handel. Ora vorrei ragazzi” ci dice il prof, “che voi sentiate come questa musica richiama davvero la musica dell’acqua”.
E tutti noi intenti a percepire in quella musica il suono dell’acqua, e a sentirlo come fosse vero!
Ma solo dopo quella frase, sentimmo l’acqua.
La musica non contiene il suono dell’acqua.
Nello stesso mese mi imbatto nella quinta di Beethoven, con l’incipit che tutti conoscete: dan dan dan daaaan! Mi piace molto, e anche ai miei compagni. Non si diceva ancora che figata! Ma si disse: Forte!
Finché leggiamo uno scritto di Beethoven dove dice che le battute di inizio della quinta rappresentano il destino che bussa alla porta. E tutto cambiò e quel tan tan tan taaan divenne per sempre il destino che bussa alla porta. Senti che forza! Senti come rende l’idea! Certo! Ma solo dopo che me l’hanno detto.
Accostamenti ormai inevitabili, accostamenti che non possiamo più cancellare. Ora mi viene in mente la volta che feci sentire “Giovinezza”, sì, proprio l’inno fascista, a un amico inglese che non ne sapeva nulla. L’amico ascolta e dice wonderful, bello, proprio bello. E certo, per noi può essere bella o brutta, ma non si riuscirà mai, qualunque sia la nostra fede politica a disgiungere quella canzone, quell’inno, da ciò che rappresentava.
E le eventuali atrocità o le nostalgie non sono in quella musica, sono in noi che le ricordiamo, che le riportiamo in superficie.
C’è un effetto della musica legato ai ricordi personali e affettivi.
Sento alla televisione una vecchia canzone, le parole scuotono la mia attenzione, mi fermo e le ascolto:
“Io la vidi uscir dalla chiesetta
Con un’aria di misteeeerooo”
E non è più una canzone, ma il volto e la voce di mia nonna andata via tanti anni fa, e mi si stringe il cuore.
Porto l’esempio di un cieco dalla nascita. Ebbene, effettuano con lui il primo trapianto di cornea per ridargli la vista, anzi, per dargli la vista. Intervento delicato, grande attenzione, grande ansia da parte della équipe medica, alla fine sono tutti intorno al suo letto, gli tolgono le bende, gli dicono “apri gli occhi”, si attendono un “ooooh” di meraviglia, gioia e stupore da parte di chi finalmente vede il mondo e invece il nostro paziente, alzate le palpebre lancia un urlo disperato.
Ciò che vede è un orribile caos, un disordine di segnali, luci, colori mai visti prima, nulla di quel che vede ha senso e affinché le cose, gli oggetti possano essere riconosciuti lo rieducano (mano e vista). E così il nostro impara a vedere.
Perché si impara a vedere, non si vede e basta.
Allo stesso modo immaginate un sordo assoluto e con la ferocia di una fantasia da studioso rendiamolo anche analfabeta, non ha mai nemmeno letto nulla che riguardasse la musica. Ora compiamo una operazione immaginaria e gli doniamo l’udito. Pensate davvero che con quella nuova dote possa sentire la musica? Distinguere il caos dai suoni ordinati? “Sentirebbe” il caos come quel cieco “vedeva” il caos.
E quel caos andrà ordinato, con le nostre conoscenze. Tutto questo per dire che la musica non può star da sola, non esiste una sorta di astrazione musicale assoluta.
Una vibrazione o un insieme di vibrazioni possono probabilmente essere percepite dai “pomodori” di Vessicchio, ma anche noi sentiamo i nervi ribellarsi allo stridio di un gesso sulla lavagna. E il gessetto non produce musica.
La musica è se volete una immensa metafora, e le metafore non possono star da sole, hanno bisogno di una cornice, di un contesto, di parole, cultura che le rendano evidenti.
Se pronuncio la parola “bersaglio” non sto favorendo la creazione di immagini narrativistiche, ma se io dico “mi sento un bersaglio”, allora scatta la metafora. Se dico “onda” non accade nulla, ma se dico “le onde d’erba della pampa argentina”, allora sì, allora ho la metafora. La metafora ha bisogno di altro per esistere, per emergere. Vale anche per la musica.
La musica è un significante dal significato estesissimo, una metafora immensa. E le situazioni elencate in queste pagine non sono altro che cornici messe a rivestire la metafore per dare un senso a ciò che si ascolta.
Ora però qui vorrei tornare all’argomento del titolo: l’insegnamento del benessere tramite la musica, a scuola.
Il benessere scolastico. Che c’entra con ciò che s’è scritto?
Dobbiamo dare senso alla grande metafora. Vi invito a lasciare da parte il concetto di metafora e a prendere quello di creatività, poi penseremo a riunirli di nuovo.
La costruzione della creatività
La creatività troppo spesso viene intuita e pensata come qualcosa che va estratto dalle teste dei bambini e dei ragazzi. Si dice “liberiamo la loro creatività”. Ma, ahimè, la creatività nei bambini non c’è. Il bambino non è creativo, è invece libero, che è cosa assai diversa.
Può far di tutto, ma l’impronta di una scarpa su una parete appena imbiancata, un foglio stropicciato e strappato non ci faranno dire estasiati: che creatività. Perché si appaia creativi occorre fare un bel disegno come piace a noi e come noi intendiamo che debbano essere le cose creative. Insomma la creatività richiede regole. Così come la musica, la grande metafora richiede un contesto che ne faccia leggere un senso, così la creatività richiede regole. Che sono quelle per le quali diciamo “ciò che vedo è creativo”. E quindi, come sarebbe importante ripeterlo a lungo, nelle scuole: la creatività si insegna, non si estrae.
Così come la musica si insegna e non si estrae. Il grande sarto, il grande artista, il grande architetto mettono in atto qualcosa che risponde a regole estetiche che cambiano nel tempo e si formano collettivamente, nascono prima nelle menti di grandi masse: si costruisce un fantasma di idea nuova che ancora non prende forma, ancora è trasparente, ma vien colta dai più sensibili, dai più attenti, da chi ha la vista più acuta. È essenziale che si faccia ciò che le “persone” vogliono venga fatto senza ancora averlo detto o chiarito a se stesse. Il creativo percepisce la richiesta non detta e sa rispondere. Dopodiché l’oggetto prodotto viene riconosciuto in quanto novità (silenziosamente annunciata). Allora la musica può essere insegnata in questo modo, facendo sì che vengano colmati i bisogni non detti. Che generalmente, a scuola, non dovrebbero essere quelli dati dal mercato, dato che questi sono bisogni già detti e gridati.
Per intuire come il liberismo musicale, cioè il lasciar fare al mercato della musica, possa produrre pessimi frutti si pensi alle case editrici che con l’ufficio marketing (oggi di moda) stanno rovinando l’editoria, togliendo di mezzo gli editori coraggiosi. Si vende solo ciò che si sa già vendibile, già noto, già sperimentato, come accade con lo share nelle televisioni, e le librerie si riempiono di immondizia.
La musica non può essere solo ciò che già piace, ciò che già vende, ciò che già è accettato.
Una musica così insegna la normalità. E se l’identità è fatta anche di ricerca della normalità, allora occorre salvare anche quella parte di musica che fornisce la certezza del già accettato, del già sperimentato, del normale, ma occorre aggiungere altro, perché l’identità si può raccontare così, con un ossimoro: devo essere come tutti gli altri, ma essere comunque distinguibile fra tutti.
Non siamo formiche, non siamo api. Devo allora insegnare questo: la normalità e la diversità.
E quale può essere un contesto generale che può andare d’accordo con lo stimolare la creatività, l’educazione la formazione musicale, il pensiero musicale? Cos’è che noi sappiamo che va insegnato affinché le menti avanzino? Per antonomasia, qual è la cosa da saper vivere? Lo ricorda Borges, è il dubbio. È sapere che tutto ciò che viene dichiarato vero può anche non esserlo, è sapere che posso discutere, mettere in crisi, migliorare, criticare, che non c’è un assoluto, posso fare questo.
Io non so come si fa, mi sto difendendo col velo dell’ignoranza. Ma so che andrebbe fatto questo. So che se io insegno il dubbio musicale costruirò il pensiero musicale, vi sto invitando insomma alla didattica del dubbio. Star bene? Anche questa è solo una frase. Diamole un senso. Non c’è nulla di ciò che gli uomini sentono che non sia stato prima annunciato e profetizzato. Siamo prossimi a diventare otto miliardi, l’omologazione che ci trasformerà in formiche, ci attende se non facciamo in modo che i nostri ragazzi dicano “la penso così” e non “si deve pensare così”, anche in musica. Anche lo “star bene” si insegna, non si estrae.
Marco Vinicio Masoni
Psicologo, psicoterapeuta
Milano
L’articolo è stato pubblicato nella rivista Quaderno di orientamento – numero 51 – secondo semestre 2017. Tutti i numeri della rivista sono consultabili al seguente link
|
Bibliografia
- Rawls J., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 2017.
- Vitruvio Pollione Marco, De architectura. Edizioni Studio Tesi, Milano, 1999.
- Vessicchio P., La musica fa crescere i pomodori. Il suono, le piante e Mozart: la mia vita in ascolto dell’armonia naturale, Rizzoli, Milano, 2017.
Note
- Si sa di un gruppo di orango abitanti in un recinto zoologico. In genere l’orango che vede arrivare l’addetto che porta il cibo manda un segnale e tutti gli orango corrono verso la direzione dalla quale viene il segnale. Un orango tuttavia scoprì come ingannare il gruppo: quando vedeva arrivare l’addetto segnalava l’arrivo del cibo da una certa zona diversa del recinto, poi mentre tutti correvano verso la direzione sbagliata lui andava dalla parte giusta e, arrivando per primo, sceglieva i cibi migliori. È forse l’unico esempio noto di menzogna progettata e non costruita nella evoluzione della specie (come le astuzie per la caccia).