Percorsi di ri-motivazione per trovare la strada
Quelle che seguono sono alcune riflessioni sulla prima fase di una complessa attività di contrasto alla dispersione scolastica, avviata a Pordenone nel 2016.
“Prof, posso uscire?”
La riflessione può iniziare da questa semplice domanda, talmente frequente ed emblematica da diventare persino il titolo di un libro1 che raccoglie e racconta, in modo divertente, le più varie e strampalate giustificazioni a supporto della fatidica richiesta.
Prendendola invece sul serio questa domanda, e andando oltre il folklore di varia umanità scolastica che rivela la divertente raccolta di cui al testo citato, non è un caso se, forse, è proprio questa la domanda più frequente a risuonare nelle aule scolastiche.
Già, le aule scolastiche. Non dimenticherò mai la frase di un mio alunno di una “prima sala-bar” della Scuola Alberghiera di Aviano, che un bel giorno di qualche anno fa se ne uscì improvvisamente con un: “Prof…. a me, queste quattro mura… non mi dicono proprio niente…”.
Quattro mura, dalle quali infatti cercare di sgattaiolare fuori il prima possibile. C’è chi, sempre con la testa altrove, di fatto non ci sta proprio, anche se fisicamente presente.
C’è chi invece aspetta con cura il momento opportuno per la cortese richiesta e poi, una volta finalmente uscito non si fa più vedere per il resto della lezione. C’è chi ancora il problema lo risolve alla radice e a scuola si fa vedere il meno possibile.
C’è infine chi, a suon di chiedere continuamente di uscire, alla fine è stato accontentato: tra sospensioni, espulsioni, bocciature, ritiri, alla fine “fuori da scuola” ci si ritrova, del tutto.
Prendere sul serio la domanda significa interrogarsi su questa insistente “richiesta di uscire”, esplorarne il senso prima ancora che il significato. Significa iniziare a porci a nostra volta delle domande: Perché uscire? E poi, uscire da cosa? Da dove?
Interrogarsi dunque sul senso del “Prof, posso uscire?” può essere l’inizio di un percorso che ci aiuti a capire cosa sta succedendo, che ci aiuti a convincere chi è uscito a rientrare e magari, perché no, anche a far passare la voglia di chiedere continuamente di uscire a chi in aula ci rimane.
E allora, va bene… usciamo!
La prima domanda invece che mi sono posto, come insegnante, è stata: come uscire? La risposta in verità non si è fatta attendere e, quasi senza rendermene conto, fuori dall’aula mi ci sono ritrovato proprio io. Ma vediamo con ordine come sono andate le cose.
Stanco di rispondere sempre e continuamente di no alla fatidica domanda, e riconoscendo in fondo di aver anch’io sperimentato molto spesso una analoga insofferenza per le aule scolastiche, ho iniziato a interrogarmi appunto sul “come uscire” dall’aula, ponendo per contro un paio di condizioni non negoziabili: uscire si può, ma rigorosamente tutti insieme e, comunque, a fare lezione.
Ecco che il primo passo è stato trasformare la domanda “Prof, posso uscire?” nell’altra “Prof, possiamo uscire?”. Il problema è stato chiarire, e concordare assieme, cosa possa significare fare lezione fuori.
Non è questa la sede in cui approfondire questo aspetto del percorso, basti evidenziare che interrogarsi su questo punto significa, né più né meno interrogarsi su cosa significhi fare lezione. Per quanto mi riguarda è stata una bella occasione per ripensare il lavoro di insegnante e per individuare, sviluppare, adattare e affinare tutta una serie di “dispositivi pedagogici” che alla fin fine mi sono risultati preziosi sia nel lavoro in aula, sia nel lavoro che sarei andato a svolgere di lì a poco.
L’occasione è arrivata con la scelta, da parte della Direzione della Scuola Alberghiera, di selezionare in modo più rigoroso l’iscrizione alla Scuola stessa, offrendo nel contempo a chi non fosse stato accettato la possibilità di usufruire di percorsi alternativi.
Questi percorsi, all’epoca tutti ancora da costruire, avrebbero dovuto accompagnare questi ragazzi fino alla soglia di un successivo corso professionalizzante intensivo, riservato a maggiorenni2. La caratteristica di chi non superava i nuovi parametri di selezione era comune: insuccessi scolastici per i più vari motivi e pessimo rapporto con le istituzioni (a partire da quella scolastica) e con il mondo degli adulti in generale.
Il problema si poneva dunque su almeno tre fronti:
- come recuperare uno straccio di relazione significativa con queste persone;
- come convincerle a riprendere un qualsivoglia percorso scolastico/formativo;
- come renderle capaci di sostenere l’impegno e la continuità di un percorso intensivo e concentrato di almeno 600/800 ore, in termini di frequenza, continuità, puntualità, lavoro.
È risultato subito evidente che tutto questo non sarebbe stato possibile né in un “contesto” scolastico tradizionale (scuola, centro di formazione professionale), né tantomeno con i tradizionali approcci e strumenti “scolastici”.
Ed è così che poco dopo mi sono ritrovato fuori da un’aula scolastica, con un gruppo di nove ragazzi e la prospettiva di un modulo di 15 ore di “ri-motivazione allo studio”.
Dal febbraio al luglio 2016 i ragazzi sono diventati cinquanta, i moduli si sono moltiplicati per complessive circa 150 ore. Un gruppo di questi cinquanta ha pazientemente atteso sei mesi per potersi infine iscrivere ad QBA di cucina e conseguire l’agognata qualifica di cuoco.
Stare fuori
Il primo approccio è stato in una piccola sala riunione della Sede Regionale dello IAL, tutti seduti attorno ad un tavolo, a ragionare insieme su cosa voglia dire “stare fuori”. All’inizio magari può anche sembrare interessante, in fondo è quello che si è sempre cercato: stare fuori da scuola, finalmente liberi! Non avere niente da fare, alla lunga stufa un po’.
Si comincia/continua a dormire fino a tardi e di conseguenza a sfasare gradualmente il ritmo giorno/notte. Il nuovo ritmo quotidiano diventa, nel migliore dei casi, l’alternanza tra: letto/ divano/monitor (tv, tablet, smartphone, cellulare, Xbox)/frigo/forno microonde. Più spesso diventa invece: letto/ parco/kebab/supermercato/stazione e strada.
Quello che manca di più, della scuola, sono i vecchi compagni, che ormai si rivedono quasi solo all’orario di uscita, in premura, stessa stazione degli autobus ma strade decisamente diverse.
Anche degli insegnanti a volte manca qualcosa, forse non sempre la materia insegnata, sicuramente la possibilità di scontrarsi con qualcuno, un adulto al quale poter rinfacciare la responsabilità di tutto quello che non va.
Piano piano si scopre che essere usciti da scuola significa “stare fuori” un po’ da tutto: sicuramente dal lavoro ma anche da un certo tipo di ambienti, di società adulta; nuove compagnie hanno preso il posto delle vecchie.
Alla confusione, alla vivacità e alla varietà del cortile scolastico durante la ricreazione sono subentrati piccoli gruppi molto più “omogenei”, dove tutti condividono la stessa situazione: stare fuori, stare ai margini e, quasi sempre, stare in strada.
Stare fuori è stato dunque il punto di partenza, il concetto base per tutta l’attività di ri-motivazione, a partire dalla convocazione stessa del primo gruppetto di nove in uno spazio non scolastico (gli uffici della sede regionale dello IAL), un possibile nuovo punto di ripartenza: fuori da scuola e un altrettanto possibile nuovo obiettivo: ritornarci, a scuola, per riprendere e concludere un percorso interrotto. Per potersi presentare, nella ricerca di un lavoro, con qualcosa in mano.
Dimmi chi sei
Questa è stata la domanda, quasi un’ingiunzione, posta il primo giorno ai nove ragazzi che si sono presentati per il modulo di 15 ore di ri-motivazione, modulo che avrebbe comportato tre incontri di 5 ore ciascuno. Tutti attorno ad un unico tavolo. La modalità di lezione ampiamente sperimentata del giro di tavolo prevede che si parli tutti, a turno, di un argomento condiviso, senza commentare in alcun modo quanto dicono gli altri.
Come d’abitudine in questi casi, comincio con il presentarmi e il primo giro di tavolo consiste nell’offrire poi a ciascuno la possibilità di “interrogarmi” sulla presentazione fatta, in modo da introdurre il concetto di reciprocità nella relazione. Ciò permette a tutti di capire chi hanno davanti, cosa ha da proporre, cosa si aspetta e in cambio di che cosa.
Una volta rotto il ghiaccio, viene finalmente il loro turno: ciascuno si presenta dicendo chi è, da dove viene e come è finito fuori dalla scuola.
Mentre il primo giro di tavolo tra presentazione, domande e risposte aveva richiesto circa un’ora, questo secondo giro di presentazione dei ragazzi comprese le mie risposte a brevi domande, non impegnava più di un quarto d’ora.
Il tempo di presentazione di ciascuno varia dagli 11 ai 40 secondi. Questo è il punto di partenza. E da qui il primo obiettivo, o meglio l’obiettivo del primo modulo di 15 ore: arrivare a fare una presentazione di sé ad una persona che non si conosce, davanti a tutto il gruppo, impiegando almeno un minuto di tempo. Questo in effetti sarà l’esame finale, perché il modulo di ri-motivazione prevede un esame finale.
Per coloro che hanno partecipato a questa prima fase di ri-motivazione, è poi arrivato il momento di iscriversi al percorso di qualifica di 600 ore: l’esame di ammissione al corso sarebbe consistito in una presentazione di sé, davanti a una persona sconosciuta, della durata minima di cinque minuti. Durante la presentazione bisognava convincere l’esaminatore che, considerato il proprio vissuto scolastico questa volta ce l’avrebbe fatta!
Di presentazioni di sé, da febbraio a luglio, questi ragazzi ne hanno fatte parecchie, aggiungendo una manciata di secondi ogni volta, presentandosi ad ogni fine modulo, a persone diverse. Quello che ne è venuto fuori alla fine, oltre alla soddisfazione di sorprendersi a gestire con tranquillità e competenza un traguardo prima giudicato difficile, è stato anche un vero e proprio modello pedagogico.
Dover ripetere in continuazione le stesse storie, con le stesse persone, cercando ogni volta di aggiungere qualcosa, di raccontarle meglio, di trovare le parole giuste ha, da una parte permesso ai giovani di prendere confidenza con il parlare di sé, dall’altra mi ha costretto a cercare continuamente nuovi stimoli, nuove forme, a inventare piccoli espedienti per superare gli ostacoli, a ri-definire insomma una pratica autobiografica decisamente originale.
Parlare di sé è diventato nel tempo un vero e proprio laboratorio: l’Atelier Autobiografico di cui mi limiterò ad evidenziare alcuni aspetti distintivi. Tre sono le caratteristiche fondamentali.
- A dispetto del titolo non si tratta di scrivere della vita, ma di raccontarla: la dimensione è quella dell’oralità all’interno di una relazione interlocutoria e di ascolto reciproco.
- Viene completamente sovvertita la dimensione temporale4. La forma del racconto non è quella cronologica del Curriculum Vitae, una cosa dopo l’altra, ma diventa combinatoria: ogni parte può essere l’inizio e la sequenza del racconto di sé non è data una volta per tutte, ma dipende: dal momento, dalla situazione, da chi ascolta e dalla sua partecipazione al racconto, da come ci si sente hic et nunc.
- Non essendo cumulativa e cronologica, la narrazione di sé prescinde dall’età, e di conseguenza dall’esperienza dell’autore. Cade quindi l’ostacolo principale che vede il momento autobiografico come un punto da cui guardare indietro, come dall’alto di una collina, per contemplare e riflettere sull’intero arco di vita.
Questo approccio narrativo consente infatti anche agli adolescenti, ai quali normalmente viene ripetuto che non hanno ancora esperienza della vita, di avere molte di cose da raccontare e di poterlo fare. La possibilità inoltre di costruirsi pian piano, con un linguaggio adeguato, una vera e propria mappa mentale, un catalogo, di ciò che si può raccontare di sé permette, nell’atto stesso del racconto, di modificare, di riscrivere, la stessa biografia5.
Per sintetizzare questo ribaltamento del paradigma temporale ritorna utile il riferimento al titolo dell’autobiografia del famoso scrittore Gabriel Garcia Marquez: Vivir para Contarla, che nel nostro caso potrebbe diventare Contarla para Vivir.
Tutti i tredici allievi che, a partire da questo percorso di ri-motivazione, sono arrivati infine al conseguimento della qualifica di cuoco, alla prova orale dell’esame finale hanno raccontato se stessi davanti alla commissione d’esame, impiegando ciascuno un tempo dai dieci ai quindici minuti.
Camminare, spostarsi
Così come tutto aveva avuto inizio uscendo tutti insieme dall’aula in risposta alla domanda “Prof, possiamo uscire?”, una volta fuori il problema è diventato subito quello di ri-definire lo spazio educativo. Trovare insomma qualcosa che potesse sostituire lo spazio dell’aula.
Questo ha comportato il passaggio dal concetto di luogo (come ad esempio l’aula), a quello di campo, inteso come quella porzione di spazio in cui agiscono determinate forze.
In questo caso le forze che determinano questo nuovo spazio educativo non sono più determinate dalle caratteristiche particolari di un luogo specifico deputato all’insegnamento, ma derivano dall’insieme delle relazioni educative che si vengono a creare tra le persone (tra docente e allievi non meno che tra gli allievi stessi).
La conseguenza immediata è che il campo educativo viene determinato dalle persone e che quindi si può spostare con esse: una forma di pedagogia itinerante6.
l primo incontro negli uffici della sede regionale dello IAL ne sono infatti seguiti altri, in spazi diversi della città, a cominciare da quelli della Casa dello Studente di Pordenone, che ospita tra l’altro una biblioteca, uno spazio per la lettura dei quotidiani, una galleria d’arte moderna e contemporanea, un bar ed una mensa: sono gli spazi dove si sono svolti gli incontri. Ma anche la biblioteca civica, le salette riunioni (di enti e associazioni di categoria), il Servizio per le Dipendenze, il parco, sono stati a turno, sedi degli incontri di ri-motivazione. Spostarsi da un posto all’altro è diventato parte integrante del percorso formativo (in questo caso proprio in senso letterale), un’occasione inoltre per vedere molti punti della città in modo diverso, da altri punti di vista.
È da qui che è venuta l’idea di chiamare l’intero modello pedagogico che si è venuto delineando: Formazione a piede libero in quanto, come dice Maturana “si vede con i piedi, perché soltanto quando si cammina le cose cambiano e si può produrre quell’anello senso-motorio in base al quale le attività sensoriali informano quelle motorie, che a loro volta informano le attività sensoriali”7.
La mappa delle nuvole
Dai luoghi alle nuvole. Un tipo particolare di non-luogo, una tipologia del tutto nuova, è oggi costituito dal Cloud, la nuvola per definizione, o meglio la iper-nuvola, la iCloud sul Web. Contrapposta anche terminologicamente agli ormai primordiali siti internet, la nuvola è dappertutto (a condizione che ci sia campo ovviamente) e contemporaneamente in nessun luogo ma, aspetto più importante, la nuvola è indefinita nei contorni, nelle dimensioni e, almeno per quello che si vede in cielo, nel movimento.
Nessuna immagine migliore, per cercare di descrivere oggi la forma che ha gradualmente assunto il mondo del lavoro: uno spazio dai contorni imprecisi e indefiniti, dai confini che si spostano di giorno in giorno e nel quale, anche una volta “entrati”, non è raro trovarsene nuovamente fuori senza aver capito come.
Ben diversa è la situazione di qualche decennio fa quando, ad un percorso di studio corrispondeva, in linea di massima, un posto di lavoro. Il mondo è cambiato, e continua a cambiare, drasticamente e anche molto rapidamente, ma la struttura dei percorsi di studio non è stata in grado di adeguarsi a questi cambiamenti.
Un’immagine efficace di questa situazione è la rappresentazione grafica dei vari percorsi di studio che, dopo il diploma di primo grado, portano al conseguimento delle varie certificazioni europee (European Qualification Framework o semplicemente EQF): una serie di rettangolini precisi ed ordinati, messi in fila uno dietro l’altro che corrispondono alle varie classi e relativi percorsi. Cinque quadratini a formare un bel rettangolo rappresentano i licei o gli istituti tecnici superiori, tre quadratini formano il rettangolo delle varie lauree brevi e due il biennio delle specialistiche; tornando indietro, abbiamo i rettangolini triennali delle qualifiche professionali a cui si può aggiungere un singolo quadratino del quarto anno di specializzazione professionale. Una bella architettura, non c’è che dire, che rimanda ai mattoncini Lego di un tempo, salvo che alla fine di queste ordinate sequenze si passa dalla precisione e dall’ordine di questa architettura all’indefinitezza nei contorni e nella consistenza di un mercato del lavoro che, al netto della crisi vive, cresce e si sviluppa in un altro modo.
Dai quadratini, dai mattoncini Lego, alle nuvole: così abbiamo rappresentato alla lavagna la situazione di ciascuno di noi.
Una volta finito il ciclo degli otto quadratini di primarie e secondarie di primo grado, disegnati alla lavagna in orizzontale da sinistra a destra, ognuno, rappresentato da un piccolo magnete colorato, si posizionava in relazione al proprio percorso scolastico.
C’era chi non aveva nemmeno provato a continuare; chi era passato dal primo anno di un percorso, al primo di un altro senza superarne nessuno; chi aveva continuato nella stessa direzione, ma ripetendo due volte ogni anno; chi infine era anche arrivato quasi alla fine del percorso, ma l’aveva abbandonato. In un modo o nell’altro, con percorsi e storie diverse, tutti i piccoli magneti colorati (in rappresentanza di altrettanti ragazzi e ragazze presenti) si trovavano di fatto nella stessa parte della lavagna.
Fuori dai bei percorsi ordinati che orizzontalmente da destra a sinistra portano al mondo del lavoro, rappresentato da un insieme di nuvole, si poteva rappresentare un’altra nuvola, o insieme di nuvole, la nuvola di chi non è dentro un “mattoncino”, un’aula, una scuola, un corso… e che non è nemmeno nella nuvola del lavoro ma che, soprattutto, non ha molte prospettive nemmeno di arrivarci.
Questa era la mappa disegnata alla lavagna. Una mappa di trenini fatti di vagoni che possono portare dalla primaria ad una qualifica di terzo livello o fino al dottorato universitario (sulla lavagna sono rispettivamente undici e venti mattoncini).
E poi le nuvole, quella del mondo del lavoro sulla destra e quella in mezzo, dove ci sono i piccoli magneti colorati che, fortunatamente, si possono spostare per raggiungere il lavoro.
La mappa delle nuvole, appunto, di chi cerca di passare dall’una all’altra e che per farlo deve poter ri-accedere ad un sistema, scolastico o formativo che sia, aperto e non per forza così tanto “ordinato”.
Perché altrimenti il rischio è quello che alla fine si resti intrappolati in una nuvola, una consolatoria nuvola di fumo.
Stefano Bertolo
Direttore I.A.L.
Pordenone
L’articolo è stato pubblicato nella rivista Quaderno di orientamento – numero 52 – primo semestre 2018. Tutti i numeri della rivista sono consultabili al seguente link
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Bibliografia
- Benasayag M., Schmidt G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004.
- Celine L.F., Il Dottor Semmelweis, Adelphi, Milano, 1975.
- Margiotta U., Teoria della Formazione, Carocci, Roma, 2015.
- Melazzini C. Insegnare al principe di Danimarca, Sellerio, Palermo, 2011.
- Milani L., Lettera a una professoressa, Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1967.
- Morin E., Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
- Varela U., Maturana F., Autopoiesi e cognizione, La realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia, 1980.
Note
- Nerio Cicognani, (2008), Prof. Posso uscire?, ilmiolibro, Milano.
- Ci si riferisce alle Qualifiche di Base Abbreviate, nel linguaggio della formazione professionale QBA.
- Ai cinque iniziali “non ammessi” alla Scuola Alberghiera se ne sono presto aggiunti altri segnalati dal COR.
- Il riferimento è alla concezione del tempo espressa in Henri-Louis Bergson, Durata e simultaneità (a proposito della teoria di Einstein) e altri testi sulla teoria della relatività, a cura di Raffaello Cortina, traduzione di Fabio Polidori, Milano, 2004.
- Il riferimento è alla potenzialità del linguaggio di modificare l’organismo stesso che descrive attraverso il paradosso apparente di “considerare le proprie rappresentazioni come unità con cui interagire”, Varela e Maturana, Autopoiesi e cognizione, p 83.
- Pur essendosi sviluppata in modo completamente autonomo, questa concezione di una pedagogia itinerante ha trovato molti riscontri con l’esperienza dei maestri di strada di Napoli, sia attraverso il confronto diretto con Cesare Moreno come nella lettura del testo da lui curato relativo all’attività della moglie Carla Melazzini nel testo riportato in bibliografia.
- Il riferimento è all’opera del matematico Henri Poincaré e al pedagogista Jean Piaget come citati, unitamente alla dichiarazione di Maturana, in Cibernetica ed Epistemologia: storia e prospettive, di Heinz von Foerster (in La sfida della complessità, a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, Mondadori, Milano, 2007, p. 98).