Illuminarsi con le parole

Leggere e scrivere per conoscere se stessi

Odissea, libro ottavo. ‘’E dopo che si furono tolta la voglia di mangiare e bere, la Musa spinse l’aedo a cantare le gesta gloriose degli eroi, quella canzone di cui allora la fama giungeva fino all’ampio cielo: era la contesa tra Odisseo e il Pelide Achille, come litigarono un giorno con violente parole a un ricco banchetto in onore degli dei. (….) Questo era l’episodio che cantava l’aedo famoso. E Odisseo prendeva con le mani il gran manto color porpora e se lo tirò giù, di sul capo, e coperse il volto. Si vergognava dei Feaci a versare lacrime dalle ciglia.”

Ulisse, non ancora svelatosi, si trova alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, che l’ha raccolto naufrago e ha organizzato per lui un lauto banchetto.

Ulisse non aveva mai pianto prima, riflette Adriana Cavarero, si commuove solo ascoltando il racconto delle sue imprese, il racconto di sé. Mentre viveva le vicende narrate, non aveva potuto percepirle, tanto ne era stato coinvolto. Solo ora che il tempo le ha separate da lui, può rivolgere loro uno sguardo più lucido, può acquisirne il significato e, insieme ad esso, comprendere chi ne era il protagonista. Solo ora può comprendersi, divenire consapevole di sé. Da quella consapevolezza scaturirà il bisogno di raccontarsi, e infatti, proprio alla corte dei Feaci, Ulisse darà voce alla sua storia e la farà giungere fino a noi.

Ho voluto iniziare con una figura mitologica, e ne proporrò poi un’altra, perché il mito, cioè il racconto di ciò che è stato eccellente, ha ancora per noi un grande valore. Quelle esperienze straordinarie che riguardano l’amore, il coraggio, la vita, la morte, sono nobili anticipazioni di ciò che accade ancora, le abbiamo depositate in noi, integrate nel nostro codice genetico. L’ascolto come sorgente di consapevolezza è un retaggio che alberga in noi fin dai tempi più lontani, un lascito nobile, che, in quanto tale, ha assunto la forma di un mito.

Questo si ripete ogni qualvolta leggiamo Letteratura, con la elle maiuscola. Se quella che abbiamo sotto gli occhi è Letteratura, parlerà un po’ anche di noi. La scrittura passa da una dimensione ‘privata’, quale può essere quella di un diario, che ha un senso esclusivamente per chi lo scrive, ad una ‘universale’, quando, attraverso l’imbuto del linguaggio, fa risuonare accenti umani, accenti che toccano tutti i cuori.

Questo è ciò che chiediamo alla letteratura: di parlare a ognuno di noi, di riordinare, di prospettarci un orizzonte diverso cui guardare, che, altrimenti non si sarebbe svelato. Leggendo, cogliamo cose che avevamo dentro e non sapevamo di avere, che avevano bisogno di essere svegliate.

Troviamo parole che ci illuminano, che danno luce a quanto sarebbe rimasto sepolto, che ci permettono di sprigionarlo dal silenzio, un silenzio che urla più dell’espresso. Il non detto può dare significato.

Questo succede a tutti, frequentemente e con esiti sorprendenti e carichi di conseguenze, anche ai giovani.

La vicenda di una ragazzina di 14 anni, alunna del mio istituto, ne è testimonianza. Un giorno entrò in biblioteca alla ricerca di un libro che potesse dare sollievo al periodo difficile che stava attraversando. La ricordo bene: sguardo basso, capelli tinti rasati da un lato, felpa col cappuccio e mani in tasca. Voleva un horror, ma io le proposi “Oro”, di Marcel A. Marcel, non so perché, un intuito, il braccio si era diretto da solo verso quella copertina.

“Oro” è la storia di Lena, tredici anni, che vive in un orfanotrofio di Varsavia. Passando da una famiglia ad un’altra si è convinta di essere una bambina che ha qualcosa che non va, addirittura di portare sfortuna e di non poter essere amata.

La nostra alunna accettò e promise che sarebbe ritornata. Il giorno seguente la incrociai in corridoio e lei mi disse con un accenno di sorriso che il libro era bellissimo: parlava di lei. Le chiesi di scegliere il passaggio che parlava di lei e di scriverlo in un post-it giallo, che poi avrei attaccato alla lavagna della biblioteca insieme a tutti gli altri. Due giorni dopo, ritornò in biblioteca con un cuoricino rosa, il suo post-it e lo collocò un po’ in un angolo. Vi lessi: “Voleva piacere, voleva fare una buona impressione, essere amata a prima vista” e, accanto, aveva disegnato un cuoricino blu. Per me, un’emozione enorme.

Le parole del libro avevano acceso in lei una consapevolezza, si erano prestate perché lei si accorgesse di sé, perché le riferisse a sé. Le facevano capire che non era la prima a provare quella sensazione, ad avere quel desiderio, che altri avevano vissuto la stessa situazione. Le ridavano respiro. Stabilivano anche una relazione tra me e lei: io l’avevo riconosciuta com’era, l’avevo ascoltata e valorizzata…non occorre sottolineare quanto sia importante questo, nella vita scolastica, e quale ricaduta possa avere nella pratica didattica.

Gli adolescenti vanno in cerca di qualcosa che possa aiutarli nell’impresa della costruzione della propria esistenza, che possa rassicurarli sul fatto che quella è stata ed è l’impresa di tutti.

Esemplari le parole di Georges Arthur Goldschmidt, scrittore tedesco, in relazione alle ‘Confessioni’ di Rosseau: “Fu come un colpo di fulmine, come se la scrittura si fosse fatta carne, come se quelle righe fossero penetrate attraverso me, come se mi riconoscessero; allora c’era qualcun altro che, segretamente, aveva provato le cose che provavo io, di cui si poteva, attraverso il proprio corpo, indovinare cos’aveva sentito… Altri prima di me avevano provato le mie stesse inquietudini. Ora tutto, attorno a me, era nell’ordine naturale delle cose”. Goldschmidt aveva trovato le parole che lo confortavano, che lenivano le sue paure, che lo facevano sentire meno solo, che gli stavano accanto mentre lui prendeva coscienza di sé.

Le storie degli altri aiutano. Leggendole, i ragazzi ne diventano i protagonisti e diventano anche i loro pensieri e le loro emozioni, scoprono che erano gli stessi che avevano dentro, ma che non avevano ancora sentito e nominato.

E nominare i propri sentimenti non è così facile: mancano le occasioni, il tempo, la capacità di comunicare…sono pochi i luoghi in cui si può parlare di sé ed essere ascoltati. Si cresce, così, con un vocabolario ristretto, che non accoglie i nomi delle emozioni e questo ha enormi ripercussioni.

La consapevolezza delle proprie emozioni influisce sulla capacità di controllarsi: conoscere un’emozione come la rabbia nel momento in cui ci coglie, modifica il comportamento. E veramente necessario lavorare con i ragazzi su tutti questi aspetti, che, oltre a essere altamente formativi, accolgono il loro favore.

Da anni, il mio Istituto, organizza la Giornata Internazionale del libro, un incontro tra un autore e gli studenti di tutte le scuole superiori di Pordenone.

Per l’edizione 2019, ho scelto Barbara Mary Tolusso, ho proposto ai ragazzi di leggere il suo “L’esercizio del distacco” e di trovare una frase cui far seguire 5 righe sul riflesso che quella frase aveva prodotto in loro. Ho ricevuto tantissimi testi, di almeno 20 righe l’uno. Sembrava che non aspettassero altro che liberare le loro voci.

Perché l’esigenza di parlare di sé, di raccontarsi? Di dilungarsi a fronte di una richiesta di poche righe? Che cosa ci spinge a ciò?

Adriana Cavarero, ancora, ci insegna che tra identità e narrazione c’è un legame strettissimo, quasi una dipendenza. Non c’è identità se non c’è la possibilità di tradurla in parole e di narrarla a qualcuno. Di più, tra identità e narrazione c’è un rapporto di desiderio. Che cosa si desidera? Che gli eventi si uniscano in forma di storia, una storia che dia significato agli eventi stessi, e che questa restituisca identità a chi li ha vissuti. Eventi slegati, senza una trama, non significano niente, sono voce persa.

Una figura stupenda, da questo punto di vista, è “Elena di Sparta”, descritta da Lorena Minutilli nel suo libro recentemente uscito per Baldini Castoldi. Elena di Sparta, la donna più bella del mondo, un’altra figura mitologica, si fa portavoce di tutte le donne e chiede di essere ascoltata. Elena vuole raccontare: solo così quel corpo meraviglioso acquisterà consistenza.

‘’L’epopea di Odisseo, la carneficina che attendeva Agamennone e Cassandra. Avrei tanto voluto calcare le vie di Sparta con la gloria di chi ha vissuto un’esperienza unica e irripetibile, che lo ha cambiato per sempre e vuole condividere con il mondo. Avrei tanto voluto che qualcuno, anche l’ultima delle ancelle, si sedesse accanto a me su una panca di legno e mi sussurrasse con tono impaziente: «Dai, Elena, racconta». Avevo così tanto da dire e così poche possibilità di essere ascoltata’’.

E ancora: ‘’Menelao tacque. Riusciva a vedermi, ne ero sicura, eppure si nascondeva nell’ombra. «Però non sei ancora contenta», disse. «Perché non sei ancora contenta? Forse non valeva la pena di distruggere il mondo per la tua altra metà della vita?». «Certo che ne valeva la pena. Ma come posso essere contenta se non ho ancora trovato la pace? Continuerò a pensare che tutto è successo tra i fantasmi della mia mente se non mi arresto in qualche luogo. Non riuscirò a dare realtà a ciò che ho vissuto se nessuno me lo permette e fino ad allora non potrò mai essere contenta». «E di cosa hai bisogno, per trovare la pace?». Conoscevo la risposta da anni. «Di raccontare»”.

Elena vuole essere ascoltata da Menelao, dal suo sposo, per apparire, davanti a lui, finalmente, come è nella sua autenticità e non solo come è stata percepita e intesa per tutti quegli anni. Ha bisogno di far uscire dal suo corpo la sua vera storia perché solo su quella potrà rifondarsi e proseguire.

Ogni insegnante sa quanto sia importante per i ragazzi, che stanno costruendo la loro identità, essere riconosciuti e considerati come individui.

Mettersi in relazione con loro, per avviare una comunicazione, seppure all’interno di un sistema di regole, è la condizione fondamentale perché avvenga, poi, una ricaduta didattica.

Dal raccontare allo scrivere, il passo è breve, come lo è dal leggere allo scrivere: tra queste facoltà squisitamente umane c’è un fondo comune. Dalla lettura del libro, Ester aveva colto alcune parole, che erano divenute la sorgente del racconto della sua storia. Aveva iniziato a scrivere fogli e fogli protocollo, con l’intenzione di diventare una scrittrice.

Perché abbiamo bisogno di scrivere? Questione eterna, su cui esistono tantissime tesi. Io vi propongo il ragionamento che Duccio Demetrio riporta nel suo “Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione”. Per ‘scovare’ che cosa provochi in noi l’urgenza narrativa, Demetrio si rifà al concetto aristotelico di ‘entelechia’, la tensione di un organismo a realizzare se stesso, passando dalla potenza all’atto. Questa tensione è in tutti noi, noi agiamo e pensiamo per giungere a questa meta, ‘la piena maturazione cosciente della nostra soggettività’.

“La scrittura”, continua Demetrio, “non può che essere considerata l’ausilio che facilita la nostra crescita personale; la forza psichica e fisica che accresce la consapevolezza del processo di maturazione nel mentre lo stiamo vivendo”.

Scrivendo, accadono molte cose.

Ricomponiamo le diverse identità che siamo costretti ad assumere nei vari contesti della quotidianità e giungiamo ad un IO più autentico e sincero. La scrittura richiede la massima sincerità, costi quel che costi, e quella sincerità significa anche consapevolezza, una consapevolezza che fatica a delinearsi quando siamo immersi nelle vicende. Ulisse ce l’ha dimostrato. Per scrivere dobbiamo operare un distacco, che porta lucidità.

Scrivendo, mettiamo ordine. Solitamente, la scrittura nasce da una situazione di crisi, spesso da un evento forte che ci ha colpiti, ci ha feriti, o ancor peggio, ha fatto “esplodere” la nostra biografia. Oltre a mettere ordine nei tempi, scrivendo ci si riappropria di un ordine perché si è costretti ad affidarsi ad una sintassi che abbia un senso. Utilizzare la sintassi significa ricorrere ad una struttura che dia ordine alle frasi tra loro; quell’ordine diventa ordine mentale, logica, in contrapposizione all’indistinto che aveva mosso le prime parole. Solo dall’ordine, ovviamente, la possibilità della consapevolezza.

Possiamo concludere, quindi, che le parole, lette, raccontate o scritte, possano accendere in noi lampi di consapevolezza e assisterci nella maturazione della nostra soggettività.

Come trasportare tutto questo nella pratica didattica? Io sono facilitata dal fatto che insegno italiano e utilizzo le narrazioni, ma credo che, per certi versi, sia possibile utilizzare il metodo narrativo per esporre qualsiasi concetto, compresi quelli scientifici. Mi pare anche che l’intero sistema stia andando in questo senso, nel tentativo di coniugare scienza e umanesimo. Un esempio potrebbe essere un libro di Gabriele Lolli, “Matematica come narrazione”, recentemente uscito per le Edizioni Il Mulino.

Nella presentazione si dice che l’umanità ha sempre narrato il proprio destino e che senza il racconto gli eventi rimarrebbero solamente materiali inerti. Nella matematica, i concetti possono divenire i protagonisti di una fiaba e la dimostrazione di un teorema può assumere l’andamento di un racconto che nasce da un accidente e segue un cammino fino allo scioglimento finale. La matematica si fa quindi narrazione.

Ritornando alla mia esperienza, io ho sempre creduto al valore formativo della lettura e della scrittura. Proprio per questo, nel mio lavoro al biennio, ho privilegiato i testi integrali all’antologia. Quello cui tengo è che i miei alunni si impadroniscano delle tecniche narrative e dell’analisi del testo per sfruttare a pieno quanto un testo può dare loro. Il piacere di qualsiasi cosa deriva dal fatto di saperla fare bene. Gli stenti affaticano e allontanano. Leggere un brano di un’opera non permette di comprendere la natura dei suoi elementi, la loro funzione. Lo stesso concetto di ‘spazio’, così importante, non può essere colto da un pezzo di un’opera, nemmeno quello del tempo, o qualsiasi altro. Leggere male allontana dalla lettura.

Per non entrare nel merito del fatto che solo la lettura completa di un romanzo permette al lettore di immedesimarsi, di entrare nella storia, di cogliere l’accento umano che lo riguarda, di farlo entrare in sé, nella propria coscienza.

Da ultimo, utilizzare le narrazioni come strumenti formativi risponde a quanto dice, a proposito dell’educazione, Luigina Mortari in “Avere cura di sé”, Raffaello Cortina.

Secondo la Mortari, l’essere umano ha il pesante compito di dare forma al proprio tempo, di dargli una direzione, un senso, affinché non scorra e basta. Solo nel primo caso si accede a una dimensione autentica del vivere; nel secondo, invece, si rimane ancorati, umiliati, ad una dimensione inautentica (autentico nel senso di vero, reale). Se questo deve imparare a fare, l’essere umano, fin dai primi giorni, a questo deve tendere l’educazione.

Il concetto di cura di sé ci arriva da Socrate, che afferma che il compito dell’educatore è sollecitare il discente ad avere cura di sé, cioè della propria anima, pratica cui può accedere solo chi conosce se stesso, chi ha consapevolezza della propria essenza.

“Alla luce dell’assunzione della primarietà della cura di sé”, spiega la Mortari, “si può affermare che educare significa offrire all’altro quelle esperienze che lo metteranno nella condizione di assumersi la responsabilità della propria formazione; quindi il senso ultimo dell’educare consiste nel facilitare nell’altro l’acquisizione di quelle capacità e lo sviluppo di quelle disposizioni necessarie ad attivare il processo di autoformazione, che consiste nell’assumersi la responsabilità di dare forma al proprio modo di esserci”.

Io credo che Luigina Mortari abbia colto in pieno il senso dell’educazione, un senso che può essere oggetto trasversale alle varie discipline, ma che, indubbiamente, privilegia quelle umanistiche. Insegnare ad avere cura di sé, a dare forma e senso al proprio tempo significa farsi coinvolgere, mettersi in gioco, confrontarsi con se stessi e con gli altri: un lavoro faticoso e impegnativo, che richiede onestà e coraggio, ma che restituisce tanto. La consapevolezza, innanzitutto.

Alessandra Merighi
Scrittrice, docente I.I.S. “F. Flora” di Pordenone

 

L’articolo è stato pubblicato nella rivista Quaderno di orientamento – numero 55 – secondo semestre 2019 – primo semestre 2020.

Tutti i numeri della rivista sono consultabili al seguente link

 

Bibliografia

  • Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, 1997.
  • Demetrio D., Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, Raffaello Cortina, 2011.
  • Goldschmidt G. A., Jean-Jacques Rousseau ou l’esprit de solitude. Presses universitaires de Lyon, 2019.
  • Lolli G., Matematica come narrazione, Il Mulino, 2018.
  • Marcel M. A., Oro, Feltrinelli, 2016.
  • Minutilli L., Elena di Sparta, Baldini Castoldi, 2019.
  • Mortari L., Aver cura di sé, Raffaello Cortina, 2019.
  • Petit M., Elogio della lettura, Ponte Alle Grazie, 2010.
  • Tolusso M. B., L’esercizio del distacco, Bollati Boringhieri, 2018.

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