Potenziare l’Employability – Riflessività come risorsa personale

Diventa sempre più importante esplorare i meccanismi che stanno alla base delle risorse psicosociali per la costruzione dell’occupabilità e per l’autogestione delle storie lavorative

Tre differenti prospettive sull’occupabilità

Vi è ormai un largo consenso nel riconoscere come il mondo del lavoro attuale soffra di instabilità e incertezza socio-economica, normativa, demografica e tecnologica che comportano una serie di cambiamenti anche nei modi di concepire le relazioni tra persona e lavoro. Un segnale di tale cambiamento è costituito dai difficili percorsi di carriera delle persone, oggi resi meno lineari rispetto al recente passato a partire dai notevoli intralci nell’accesso al mercato del lavoro, dalla gravosità nel come mantenersi occupabili nel corso del tempo e, soprattutto, dagli ostacoli da superare per far fronte ai rischi di frammentazione e destabilizzazione dell’esperienza personale. Ciò ha determinato due importanti conseguenze:

  1. la prima riguarda l’esigenza ormai diffusa di rivedere la tradizionale nozione di carriera lineare sostituendola con quella di storia professionale, costruita soggettivamente sulla base più della dotazione di risorse personali che da sostegni e automatismi e pratiche organizzative (Toderi e Sarchielli, 2013);
  2. la seconda si riferisce al persistente interesse per il tema dell’occupabilità come oggetto problematico che assilla formatori, operatori dei servizi di orientamento e per il lavoro, manager e amministratori nell’intento di individuare soluzioni di reale interesse e utilità pratica per chi vorrebbe entrare al lavoro o mantenersi occupato. Nello stesso tempo, è da notare che l’occupabilità costituisce un ambito di indagine di varie discipline sociali che sta mostrando una notevole variabilità di risultati teorici e pratici. Infatti, anche in relazione all’esistenza di approcci all’occupabilità molto diversi tra loro, sembra di trovarsi di fronte a una nozione di facile uso nel linguaggio quotidiano ma che in realtà appare sfocata, mal definita, comprendente contenuti non facilmente integrabili tra loro e fortemente influenzati dal contesto nel quale vengono usati.

Basterà ricordare che, se ci si pone a livello delle strategie istituzionali, l’occupabilità si riferisce a misure governative di vario genere che si sforzano di mettere in pratica politiche del lavoro attive e passive per favorire l’occupazione e di facilitare le varie forme di apprendimento e di riconoscimento delle acquisizioni formali e informali tramite il lavoro secondo una prospettiva di lifelong learning.
Se invece si assume l’ottica formativa (dalla scuola secondaria di secondo grado all’università) vengono messi in risalto alcuni contenuti tipici dell’occupabilità ovvero le conoscenze e le skills che devono essere incentivate per corrispondere alle esigenze del mercato del lavoro e che possono divenire obiettivi di apprendimento dei percorsi formativi. In questo caso si può parlare più propriamente di working-readiness per segnalare l’importanza di possedere precocemente competenze trasferibili da un lavoro all’altro e di superare il gap tra ciò che una persona sa e sa fare e ciò che in concreto viene richiesto dalle organizzazioni. In tal senso una buona working-readiness implica, accanto a una expertise tecnica, una preparazione mirata al possesso di conoscenze di base, pensiero critico e competenze personali e sociali di tipo trasversale per accedere al lavoro e mantenere l’occupazione.
Se ci si riferisce al punto di vista delle organizzazioni si deve tener conto dei cambiamenti in atto che inducono a forzare la loro competitività attraverso l’adattabilità e la flessibilità funzionale dei loro assetti anche rispetto alla forza lavoro. Esse intendono trovare un soddisfacente punto di incontro tra i loro bisogni e le competenze disponibili sul mercato valorizzando l’occupabilità intesa come un orientamento del lavoratore (Van Dam, 2004) favorevole alla flessibilità, al cambiamento, al rapido adattamento alle mutevoli richieste e all’accettazione degli obiettivi organizzativi. Ad esempio, sono messi in primo piano, come contenuti tipici dell’occupabilità, la capacità di autogestione della carriera lavorativa, di autonomo aggiornamento delle conoscenze e skills per rispondere prontamente alle esigenze del momento e per mantenersi occupabili nel tempo, di essere capaci di coinvolgersi nella ricerca di ulteriori opportunità lavorative nel mercato del lavoro interno o esterno.
Nel complesso, questi modi di intendere l’occupabilità della persona fanno perno:

  • su caratteristiche ascrittive (ad esempio, età, provenienza sociale, etnia, appartenenza a reti sociali più o meno ampie e di supporto, ecc.) e sull’attribuzione di una delega di responsabilità alle persone stesse nel cercarsi e mantenersi un’occupazione;
  • su percorsi formativi e qualificazioni formali, più o meno corrispondenti alle esigenze delle organizzazioni;
  • su fattori esterni alla persona come: a) il mercato (ad esempio, il mercato del lavoro locale, il suo grado di recettività e apertura); b) fattori organizzativi come le politiche di reclutamento delle imprese che possono o meno aumentare la probabilità di accesso al lavoro (anche indipendentemente dalle competenze della persona); c) il grado di incisività delle politiche del lavoro nazionali (basti ricordare al riguardo che nei paesi OCDE ci sono delle differenze enormi nell’investimento in politiche del lavoro; ad esempio mentre in alcuni paesi nordici come Danimarca, Paesi Bassi e Belgio si arriva oltre il 2% del PIL in Italia si arriva a fatica allo 0,4%).

Tutti aspetti sicuramente esplicativi delle differenze di opportunità lavorative e del grado di difficoltà di accesso al lavoro di varie categorie sociali, ma meno sensibili a cogliere il ruolo attivo della persona nel costruire la sua occupabilità e a individuare modalità efficaci per sostenerla in tale compito.

Valorizzare il punto di vista delle persone

Vanno allora richiamati i numerosi contributi della ricerca psicosociale focalizzati sul punto di vista degli individui che risultano sempre più sollecitati ad assumersi la responsabilità diretta di gestire le loro storie lavorative basandosi sulle proprie forze. In questo caso l’employability assume una connotazione soggettiva non sempre apprezzata da chi valuta l’occupabilità solo con parametri economici o normativi o con orientamenti di natura amministrativa. Essa corrisponde alle percezioni che le persone elaborano rispetto alla loro capacità di entrare nel mercato del lavoro, di acquisire un’occupazione in linea con le aspettative e di mantenerla. La letteratura psicosociale ha messo in evidenza un numero rilevante di sottolineature sia sul piano delle definizioni, che dei principali costrutti e modi di operazionalizzare (rendere misurabile) l’occupabilità dal punto di vista personale. Ad esempio, Di Fabio e Cumbo (2017), nella loro breve rassegna, identificano ben nove approcci diversi che tuttavia sono accomunati dal fatto che mettono in risalto l’importanza degli atteggiamenti, delle motivazioni e delle strategie della persona indirizzati ad affrontare attivamente le opportunità e i vincoli presenti nel mercato occupazionale e nei contesti organizzativi.
In sintesi, si possono ricordare i due grandi insiemi di contenuti che connotano l’occupabilità dal punto di vista psicosociale:

  1. le competenze realmente possedute e percepite di valore ovvero la continua ricerca, acquisizione o creazione e mantenimento del lavoro attraverso l’uso ottimale delle competenze (riassunte nella nozione di occupational expertise). A queste si aggiungono, in particolare secondo Van der Heijde and Van der Heijden (2006), la capacità di anticipazione (capire in anticipo ciò che può favorire la propria crescita), la capacità di ottimizzazione (capacità di investire nelle azioni che migliorano la propria occupabilità), la capacità di equilibrare bisogni personali e organizzativi nonché la flessibilità personale e il senso di appartenenza organizzativa;
  2.  le caratteristiche disposizionali ovvero un vasto insieme di caratteristiche individuali che facilitano un orientamento proattivo e l’adattabilità lavorativa e che risultano esplorate tramite costrutti talvolta contigui tra loro (ad esempio, proattività, senso di iniziativa, auto-efficacia, stima di sé, consapevolezza di sé e della carriera, identità di carriera, flessibilità cognitiva ed emotiva, adattabilità, progettualità e prospettiva temporale futura, significati e valori attribuiti al lavoro, scopi e motivazioni del lavoro, ecc.).

Un utile schema di riferimento

Ciascuna delle differenti angolature dalle quali osservare il fenomeno employability fornisce elementi utili alla sua comprensione, ma non aiuta a cogliere le loro probabili interazioni e a formulare un quadro concettuale soddisfacente in grado di sostenere anche le pratiche di miglioramento dell’occupabilità.
Per tale ragione Guilbert, Bernaud, Gouvernet e Rossier (2016) sottolineano che l’employability va intesa come un costrutto multidimensionale che deve render conto del fatto che coesistono e interagiscono nello stesso spazio:

  •  le persone, responsabili dei loro percorsi lavorativi;
  • le organizzazioni di lavoro con le loro pratiche di gestione delle risorse umane;
  • le istituzioni che regolano il mercato del lavoro e le politiche formative che influenzano i contesti occupazionali e, più o meno direttamente, anche l’occupabilità delle persone.

Dunque, per mettere in risalto le interazioni tra questi tre poli gli stessi autori propongono una rappresentazione concettuale e grafica (Fig. 1) della struttura dell’employability. Essa è collocata al centro di un triangolo i cui lati sono in realtà costituiti dalle frecce di connessione reciproca tra i tre vertici occupati rispettivamente: dalle strategie organizzative, dalle politiche istituzionali del lavoro e formative e dalla persona stessa. Ci limitiamo a ricordare che, per quanto riguarda il vertice delle politiche organizzative, oltre alle modalità di reclutamento sono da tenere presenti le dinamiche dei mercati in cui le aziende operano che influenzano il dimensionamento e i criteri di scelta dei lavoratori. Il vertice delle politiche istituzionali e formative dà rilievo particolare alla qualità dell’istruzione (e ai suoi esiti in termini di capitale sociale) e alle politiche attive che possono incidere sul mercato del lavoro facilitando o meno l’accesso. Il vertice della persona fa riferimento al capitale umano articolabile in: “fattori individuali” di natura socio-demografica (come età, genere, provenienza familiare, qualifiche e livelli di istruzione, effettivo possesso di competenze e skills trasferibili, esperienze e traiettorie professionali, ecc.); “circostanze personali/ relazionali” (ad esempio, disponibilità di reti di sostegno sociale, accesso a capitale sociale, ecc.): “attributi personali” (le caratteristiche disposizionali e di competenza esplorate dalla ricerca psicosociale sopra ricordate).
È plausibile ritenere che le interazioni reciproche tra le varie componenti del triangolo siano in grado di dar conto delle grandi differenze nei livelli di occupabilità, come effetto della diversa forza di influenza esercitata da uno o l’altro dei vertici considerati. Ciò diventa assai esplicativo per la comprensione delle difficoltà dei gruppi sociali più vulnerabili quando, ad esempio, le carenze dal lato della persona (rispetto al possesso di skills sociali, linguistiche, di consapevolezza, autoefficacia e stima di sé, ecc.) potrebbero associarsi a barriere sul vertice organizzativo (diseguaglianze nella gestione delle persone o fenomeni di stigmatizzazione sociale sul lavoro) e su quello delle politiche formative e del lavoro (ad esempio, assenza di sostegni specifici per lo sviluppo di competenze o per la progettazione di futuro professionale sostenibile).

Risorse psicosociali e autoriflessività

Abbiamo richiamato il “modello triangolare dell’occupabilità” al solo fine di avere una visione realistica di questo concetto complesso che, appunto, comprende sia caratteristiche esterne alla persona (che possono operare come opportunità o barriere al suo sviluppo) sia fattori interni di differente natura. L’interesse principale è tuttavia sul “vertice persona” anche per poter riconoscere meglio come potenziare le sue interazioni con gli altri vertici. La domanda che ci poniamo è la seguente: su quali risorse può contare una persona per sviluppare e autoregolare la sua employability? La ricerca psicosociale e i recenti orientamenti della psicologia vocazionale (ricordiamo ad esempio gli approcci costruttivisti della Life Construction Theory di Guichard, 2009, e della Career Construction Theory di Savickas, 2011) si sono focalizzati sul repertorio di risorse personali citato in precedenza. Esso, viene articolato da Coetzee (2008) in un modo assai interessante anche dal punto di vista pratico poiché specifica differenti categorie di risorse che possono diventare il bersaglio di interventi differenziati promossi dai servizi di sostegno all’occupabilità. L’autrice considera queste categorie: risorse derivanti dalle preferenze e valori attribuiti alla carriera che costituiscono lo schema personale sul quale tracciare i passi che un individuo intende seguire; risorse abilitanti la carriera (come le competenze altamente trasferibili e quelle di interazione con gli altri), risorse energetiche e motivazionali che guidano la carriera (propositi, auto-direzione, coraggio di avventurarsi), risorse che armonizzano e regolano la carriera (consapevolezza e stima di sé, adattabilità, controllo emozionale) potenziando flessibilità e resilienza rispetto agli ostacoli.
Come si può notare si tratta in gran parte di attributi del self variamente operazionalizzati nell’ambito della ricerca (si potrebbero infatti aggiungere gran parte dei costrutti simili accennati sopra come l’identità, la self-efficacy, il self-management, le àncore di carriera, toderi e Sarchielli, 2013) che operano in senso lato come meta-competenze in grado di:

  • sostenere la pro-attività necessaria alla persona nel progettare la propria vita, nel prendere decisioni, nell’apprendimento continuo, nella soluzione di problemi non familiari, nelle strategie di autoregolazione del proprio rapporto con il lavoro e di adattamento ai rapidi cambiamenti del contesto;
  • facilitare l’acquisizione di altre competenze o skills più specifiche (ad esempio, quelle connesse con i ruoli e le domande lavorative concrete) funzionali ad accrescere l’expertise professionale e l’occupabilità.

Ciò che preme sottolineare è l’importanza di uno dei meccanismi fondamentali che entrano in gioco, direttamente o indirettamente, nella costruzione di tali differenti risorse psicosociali: l’autoriflessività. Il ruolo della riflessione è stato ampiamente affrontato nei contesti formativi come processo connesso con l’apprendimento significativo poiché esso enfatizza l’intenzione della persona di acquisire conoscenze e competenze anche riflettendo sull’esperienza fatta. Inoltre, soprattutto nei contesti lavorativi, le pratiche riflessive hanno un rilievo nella formazione di un professionista in grado:

  1. di gestire attività complesse e non standardizzabili usando le sue abilità nel riorganizzare e padroneggiare le proprie conoscenze, capacità e orientamenti affettivi;
  2. di riconoscere una significativa connessione tra il suo self (e i suoi vari attributi) e il lavoro, espressa nei termini di identità, autoconsapevolezza e senso di iniziativa personale.

Si è osservato che la riflessione su questi aspetti, attivata da pratiche riflessive sistematiche, rinforza il ruolo centrale della persona nel padroneggiare il contesto, nel dirigere le scelte da prendere e nell’imparare dall’esperienza ciò che è importante per un’azione efficace (Helyer, 2015).Un discorso analogo può essere fatto in tema di occupabilità dal momento che riflettere ovvero vagliare e valutare ciò che è stato sperimentato in pratica e nelle differenti situazioni permette alla persona di rendersi conto dei propri punti di forza e di debolezza che spesso restano sullo sfondo rallentando così la crescita e il senso di auto-efficacia della persona stessa.

Riflessione e riflessività

Riflettere non significa semplicemente applicare una regola di soluzione a un problema routinario né solo pensare in modo più mirato a qualche cosa che si presenta più complicato del solito, è molto di più. Con riferimento alle risorse psicosociali della persona, l’atto del riflettere suggerisce la produzione di un’immagine allo specchio che diviene un’opportunità per l’individuo di osservarsi, di prendere in esame ciò che è o che sta facendo e come lo sta facendo. In altri termini, si diventa “osservatori di se stessi” e delle proprie pratiche facendo emergere ed esplorando così ciò che George Mead chiamava immagine di sé per poi acquisire la consapevolezza di sé nel momento in cui si prende atto anche del grado di riconoscimento o di conferma della nostra immagine da parte di “altri significativi”. Questo processo di riflessione rappresenta un primo passo con cui rendersi conto e prendere atto anche del proprio patrimonio psicosociale disponibile, più o meno ampio.
L’auto-riflessività è il passo successivo, quello in cui si mettono in discussione le preoccupazioni, le paure, i punti di vista usati più di frequente, i temi di interesse per la propria vita che sono più ricorrenti, i modi di fare e di essere, valutando il loro grado di corrispondenza e di adeguatezza alle domande che provengono dall’esterno (ad esempio, dal contesto lavorativo) o dall’interno (desideri, preferenze, aspettative, progetti iniziali, ecc.). Riconoscere una distanza tra ciò che si possiede in termini di risorse psicosociali, conoscenze e capacità e ciò che sarebbe necessario in un dato contesto costituisce una potente spinta motivazionale per cercare di colmare il gap mettendo in atto strategie adatte a superare gli ostacoli personali o sociali che si sono frapposti.
Seppure non sia facile sottoporre a vaglio critico le proprie percezioni (ad esempio, la percezione di occupabilità), le interpretazioni e credenze consolidate dall’esperienza, la riflessività può diventare uno strumento cognitivo importante, applicabile ricorsivamente per autoregolare i propri cambiamenti (di atteggiamenti, di progetti, di modi di impegnarsi, di conoscenze e competenze, ecc.) e non effettuarli solo per costrizione, in risposta a pressioni esterne. Naturalmente, questo obiettivo non è sempre «da tutti apprezzato (ad esempio, se non ci sono motivazioni ad uscire dalle routines consolidate) o non facilmente praticabile, senza specifici sostegni, dalle persone con scarse risorse educative e socio-culturali o in condizioni di particolare svantaggio nei contesti di lavoro» (Sarchielli, 2017); inoltre esso risulta ancora troppo poco considerato negli stessi contesti scolastico-formativi e di socializzazione al lavoro che dovrebbero rendere agevole o consolidare tale modalità di pensiero critico costruttivo. Questa operazione autoriflessiva può essere sostenuta anche dall’interazione con gli altri cioè in una “conversazione” mirata alla ricerca di significati dell’esperienza che possono essere validati insieme e giustificare cambiamenti significativi di aspetti più o meno ampi del self.
Al riguardo basterà un esempio. Se pensiamo a una normale esperienza di counselling psicologico riconosceremo in pratica una simile logica auto-riflessiva che, di fatto, non fa che rendere psicologicamente salienti e strutturare meglio le modalità naturali di pensiero comunemente adottate per riorganizzare l’esperienza, ricostruire il suo significato e ricavare orientamenti per l’azione (toros e Medar, 2015). Infatti, al di là delle differenze di approccio teorico-pratico, il counselling riguarda una relazione interpersonale con un professionista (in particolare, uno psicologo) che si focalizza, in primo luogo, sul compito condiviso di far emergere dalla persona rappresentazioni significative della sua esperienza, di riflettervi esaminandole con attenzione per riconoscere, oltre alla sequenza dei fatti, le reazioni emozionali che provocano, le credenze (più o meno corrette) con cui si tende a giustificarli, le carenze personali nello svolgimento delle esperienze richiamate, ma anche le competenze inespresse o altre risorse psicosociali presenti, ma congelate o sottovalutate. In secondo luogo, questa relazione dialogica è orientata a:

  1.  facilitare l’auto-riflessività ovvero una consapevolezza critica del proprio modo di essere (del proprio self);
  2. ad individuare possibili alternative di azione, ma soprattutto nuovi modi di interpretare e di vedersi collocato nella situazione concreta (scoperta di aspetti di sé ritenuti periferici, consapevolezza di sé e delle possibili connessioni tra vari attributi personali, attenzione alle direzioni di auto-sviluppo, ecc.) e nuove possibilità di far crescere le proprie risorse.

Incrementare la riflessività nell’ambito dei servizi

L’interesse per la riflessione e la riflessività è fortemente presente nelle concezioni e nelle pratiche moderne per orientare le persone (soprattutto nei momenti di transizione), per sostenere lo sviluppo delle carriere e, più in generale, la progettazione dei propri percorsi personali dentro e fuori dai contesti di lavoro. È questo un modo anche per riconsiderare le risorse personali e il loro potenziamento nell’ottica dell’occupabilità delle persone e per trovare ulteriori significati negli interventi di sostegno attuabili, ad esempio, nei servizi di orientamento e guidance e nei servizi per il lavoro.
Pare utile qui ricordare i due contributi di Savickas (2016) e di Guichard (2016) a commento del numero monografico della rivista Journal of Vocational Behavior dedicato specificamente al tema della Reflexivity in Life Design Interventions. In particolare, Savickas sottolinea l’importanza della riflessione e della riflessività nel processo di costruzione della carriera insistendo sul fatto che: «riflettere significa considerare (vagliare) le esperienze passate o le circostanze presenti. Come parte
dell’intervento di life design, conosciuto come Career Construction Counselling, i professionisti inducono questa attenta considerazione e questa importante modalità di pensiero mediante un’intervista strutturata, cioè la Career Construction Interview. La riflessione del cliente su di sé, le proprie storie e copioni seguiti produce una concreta conoscenza e stimola un auto-esame rilevante per l’attuale transizione di carriera….successivamente il consulente favorisce la riflessività del cliente e facilità nuove azioni….Sebbene siano collegate la riflessione e la riflessività sono diverse tra loro. La persona usa la riflessione per imparare qualcosa su se stessa, mentre utilizza la riflessività per cambiare in qualche modo il suo self. Mentre la riflessione coinvolge l’autoconsapevolezza, la riflessività si riferisce all’autoconsapevolezza con l’aggiunta dell’agency ovvero della capacità e dell’intenzione di agire personalmente» (Savickas, 2016, 84, traduzione personale).
Anche Guichard (2016) si trova sulla stessa lunghezza d’onda quando sottolinea che la riflessività rappresenta un processo dialogico di interpretazione del self (particolarmente facilitato nelle situazioni di consulenza di carriera). Esso si presenta come un dialogo con il consulente, ma soprattutto con se stessi, mediante il quale gli individui effettuano un attento esame delle loro problematiche sostenuto dall’esigenza di individuare nuovi orientamenti e scopi significativi per la loro vita e delineano il significato delle loro esperienze creando connessioni tra passato, presente e futuro. In tal modo essi assumono consapevolezza delle loro risorse e mettono in atto la loro capacità di creare e definire nuove prospettive di fronte a situazioni di transizione.
Queste importanti conferme dell’importanza attualmente attribuita ai processi riflessivi e di riflessività, stimolati nelle interazioni dialogiche, potrebbero spingere a un più deciso rinnovamento anche delle pratiche di sostegno all’occupabilità nell’ambito dei servizi di orientamento, counselling di carriera e per il lavoro. Ciò nel senso di ridurre gli interventi di natura diagnostica, di profiling amministrativo o di semplice matching tra domanda e offerta in favore di una più decisa attenzione a come le persone costruiscono i significati da attribuire ai loro progetti e percorsi di vita, a come possono assumere consapevolezza delle risorse psicosociali disponibili, a come utilizzarle al meglio e a come investire energie per mantenerle aggiornate o potenziarle.
Del resto, accanto alle pratiche di counselling sopra accennate, basate sull’interazione tra persona e consulente e sicuramente complesse e impegnative sul piano dei tempi e dei costi, sono ormai disponibili molti supporti a più basso costo (e quindi più sostenibili) per facilitare l’attivazione e il sostegno all’autoriflessività e in questo modo incrementare anche l’occupabilità. Ci si può riferire a forme strutturate di stimolo alla riflessione e all’auto-riflessività, attuabili anche in gruppo e, almeno in parte, con l’ausilio delle tecnologie informatiche. Esse sono basate, ad esempio: su scritture riflessive (come diari e note autobiografiche), riflessioni riassuntive (come liste o tavole di temi di interesse, schede di autovalutazione, ecc.), rappresentazioni grafiche e diagrammi (come mappe concettuali e flow-chart relative ad esperienze svolte), rappresentazioni creative (a partire da stimoli come immagini, simboli, brani letterari, spezzoni cinematografici, ecc.), commenti su registrazioni (di storytelling, interviste video, ecc.), perspective taking (mettersi nei panni degli altri esaminando esperienze ricavate attraverso tecniche come l’”incidente critico”), modalità di gruppo come l’action learning (focalizzazione in gruppo su un problema e riflessione critica sulle aspettative, credenze, punti di vista, modalità di ascolto attivate dal problema affrontato).

Ciò che si deve sottolineare è l’esigenza di un cambiamento di prospettiva nell’erogazione di servizi di sostegno che deriva dal riconoscimento del valore della riflessività. Si tratta infatti di creare le condizioni concrete di accesso a servizi che si propongono come missione quella di facilitare la tendenziale strategia personale di costruzione di meta-competenze rinforzando i processi di scoperta di sé, di auto-monitoraggio e auto-valutazione che aumentano la probabilità di farsi carico della propria occupabilità e di realizzare un efficace processo di autogestione dei percorsi di carriera.

Guido Sarchielli
Psicologo del lavoro
Professore a contratto del corso Individui, gruppi e organizzazioni Università di Bologna

 

L’articolo è stato pubblicato nella rivista Quaderno di orientamento – numero 50 – primo semestre 2017.

Tutti i numeri della rivista sono consultabili al seguente link

 

Bibliografia

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  • Savickas M. L., Reflection and reflexivity during life-design
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